Quelle donne sempre sovversive

L’Argentina è tornata ad essere un grande laboratorio sociale e politico. Le assemblee di quartiere, le organizzazioni di disoccupati (i piqueteros), i mercatini del baratto, le fabbriche recuperate: sono tutte esperienze di resistenza, forme di vita nelle quali si sperimentano nuove relazioni sociali, nate in questi ultimi anni per far fronte alle drammatiche conseguenze del neoliberismo, e che, ha detto la regista Naomi Klein, stanno disegnando un altro sistema possibile per il resto del mondo. Il film sulle fabbriche recuperate in Argentina, The Take, proprio di Naomi Klein e di Avi Lewis, ci fa vedere come si possa essere produttivi anche al di fuori dei rapporti sociali capitalistici, garantendo la sopravvivenza materiale di chi lavora. Insomma «una fabbrica può funzionare senza padroni, ma non può funzionare senza operai», e senza padroni quel che sparisce in profitto riappare in umanità ritrovata. Il modello economico neoliberista ha cominciato ad essere applicato in Argentina con la dittatura militare instauratasi nel 1976, ha continuato ad essere applicato dai governi formalmente democratici che si sono succeduti dopo la fine della dittatura, nel 1983, ed ha poi fatto fallire il paese in modo catastrofico nel 2001. Per anni l’Argentina, insieme con il Cile, è stata una sorta di luogo ideale nel quale una politica economica totalmente sottomessa al progetto del Fondo monetario internazionale è stata resa possibile e garantita con il ricorso alla violenza militare. È noto: sia in Cile sia in Argentina per anni non ci sono stati né partiti politici, né sindacati, né libertà di stampa. “La meglio gioventù” è stata fatta sparire, è finita ammazzata, lasciando quasi tutti ammutoliti, annichiliti. In queste condizioni la politica economica neoliberista, selvaggiamente, ha potuto andare avanti anche dopo la fine della dittatura militare, senza limiti. Nel 2001, dopo 4 anni di recessione economica ininterrotta, l’economia argentina è letteralmente collassata. Questo è stato l’esito delle politiche neoliberiste: miseria e fame, in un paese che per buona parte del ’900 è stato tra i sette paesi più ricchi del mondo. Le nuove forme di resistenza e d’auto-organizzazione per la sopravvivenza hanno cominciato a nascere però prima del 2001. Man mano che venivano chiuse le fabbriche, hanno cominciato ad ampliarsi alcune forme comunitarie sopravvissute alle persecuzioni militari e hanno cominciato a formarsi i primi gruppi di piqueteros. Coloro che sono stati messi ai margini hanno in qualche modo risolto che dallo stato non ci si può aspettare la soluzione dei propri problemi e in situazioni di estrema necessità hanno cominciato ad organizzarsi. Così gruppi di piqueteros hanno messo in piedi orti, stabilimenti per il riciclaggio, laboratori artigianali, e altro ancora, insomma tutta una serie di forme di produzione e di consumo autogestite che avvengono in condizioni difficilissime e che garantiscono certo solo al minimo la loro sopravvivenza materiale, ma che sono anche il luogo dove si provano a praticare delle forme comunitarie che sono incentrate sulla solidarietà. Contemporaneamente a partire dal 2000 gli operai e le operaie hanno cominciato ad occupare le fabbriche che chiudevano. Oggi le fabbriche che formano il movimento pare che siano un’ottantina. Nel sito www.fabricasrecuperadas.org.ar se ne trovano elencate e descritte 58, tra le quali vale la pena di ricordare l’Hospital Israelita, un’antica clinica portata al fallimento e destinata ad essere sostituita da uno shopping mall. Occupata e recuperata dalle lotte degli infermieri e dei medici, questa clinica è ora una struttura medica di 350 letti, autogestita dalla cooperativa di chi ci lavora, che tra mille difficoltà sta cercando di funzionare, e che vorrebbe diventare qualcosa di simile ad un servizio di mutua per gli operai e le operaie delle fabbriche recuperate. Chi vuole cercare di sapere che cosa sia questo laboratorio sociale che è oggi l’Argentina prima o poi finisce sempre per incontrare le Madres de Plaza de Mayo. Le Madres erano presenti alle manifestazioni per la Brukman, così come erano presenti alle assemblee della Zanon (fabbrica che recentemente, con la loro mediazione, ha ottenuto una grossa ordinazione da Cuba). Nell’Università popolare fondata dalle Madres si formano gli economisti che vanno ad aiutare gli operai in occupazione, e altro ancora. Insomma oggi le Madres sono impegnate nel sostenere ogni forma di rinnovamento sociale e politico. Ma il valore grandissimo delle Madres va ben al di là di quello che stanno facendo adesso, perché ha a che fare con tutto quanto le Madres hanno fatto da tantissimi anni per mantenere una memoria della vita, che è la memoria che ha reso possibile l’oggi, le sue pratiche e relazioni umane. Proprio il 19 aprile di quest’anno l’Alta corte spagnola ha condannato a 640 anni di carcere Adolfo Scilingo, il militare argentino che ha confessato come furono uccisi migliaia di desaparecidos. La specificità del potere argentino è stata questa: la tecnica della sparizione. Gli oppositori venivano sequestrati, il più delle volte in piena notte, da gruppi non identificati, lasciando quelli che rimanevano terrorizzati. La polizia e la magistratura non intervenivano. Il governo diceva di non sapere nulla. La chiesa stava zitta. Le carceri non registravano la loro detenzione. Erano scomparsi nel nulla. Scilingo ha confessato che dall’Escuela Mecanica de la Armada ogni mercoledì partiva un aereo carico di persone che erano state sequestrate e torturate, e che venivano poi gettate vive in mare. Scilingo ha anche confessato che per compiere questi voli della morte venivano, a turno, militari da tutto il paese: «Era qualcosa di supremo che si doveva fare per il paese». Così, facendo appello al senso del dovere e facendo leva sul richiamo alla virilità attraverso una specie di rito iniziatico, si è costruita una forma di corresponsabilità diabolica tra militari che ha costituito il perverso dispositivo di coesione delle forze armate argentine. Dunque un potere militare che si è esercitato nella distruzione degli oppositori nella forma più estrema: non ci si è limitati a torturare e ad uccidere, ma si sono fatti sparire anche i corpi come per dire simbolicamente che quei morti non erano mai stati veramente vivi, che tutto quello che quei giovani e quelle giovani avevano fatto e sperato in vita non era mai realmente esistito. A fronte di questo potere distruttivo si sono poste delle madri, donne comuni, semplici casalinghe che a quella morte riservata dal potere ai loro figli non si sono mai rassegnate. Per anni le Madres sono state le uniche che in Argentina sono riuscite, nonostante si sia tentato in tutti modi di reprimerle, a realizzare e a rinnovare una protesta pubblica che fosse anche un evento politico radicale e dirompente. Dal 30 aprile 1977 – e continuano a farlo tuttora – alla stessa ora, ogni giovedì, senza mai mancarne uno, hanno camminato lentamente (perché era proibito stare ferme) davanti al palazzo del potere, con un fazzoletto bianco in testa (un pannolino, ricordo dei figli) con scritto sopra dapprima il nome dei propri figli, e poi, al posto dei nomi, “aparición con vida”. «Ci chiamavano le pazze – ha raccontato Ebe De Bonafini nel prezioso libro scritto da Daniela Padoan, edito recentemente da Bompiani – e qualcuno pensava che fosse un’offesa. Certo ci mettevano dentro tutti i giovedì, e noi ritornavamo. Ma noi sapevamo di essere pazze d’amore, pazze del desiderio di ritrovare i nostri figli. Abbiamo rovesciato il significato dell’insulto di quegli assassini. A volte sono proprio i pazzi, insieme ai bambini che dicono la verità». In tutti questi anni le Madres hanno dimostrato una capacità creativa unica nel mettere sottosopra il senso di quello che man mano si trovavano ad affrontare, spiazzando continuamente il potere. Il loro è stato un agire politico povero di mezzi, dice Padoan, fatto di molte invenzioni simboliche. È stato nel corso delle ricerche estenuanti e senza esito dei loro figli che le Madres si sono conosciute. Si sono riconosciute l’una nell’altra e hanno riscoperto insieme chi fossero quei loro figli meravigliosi e che cosa avessero fatto per scatenare così tanta ferocia. La decisione di andare insieme nella Piazza è stata fondamentale, in quel ritrovarsi in piazza ognuna diversa dall’altra, ma tutte uguali nel condividere quella loro esperienza dolorosa, è avvenuto qualcosa di speciale: sono state “rimesse al mondo dai loro figli”, per poter continuare a dare rilevanza pubblica a quello che avevano fatto e pensato i loro figli, per continuare a fare da argine all’opera di mortificazione dei figli compiuta dal potere. Sono state “rimesse al mondo” con il desiderio di provare a rimettere al mondo quel mondo che con tanto accanimento il potere aveva distrutto. Questo loro grande desiderio lo hanno continuato a dire a tutti, non solo al potere ma anche all’intera società civile, affermando di «essere per sempre incinte dei loro figli». È grazie a questo continuo operare nel richiamare a nuova vita i propri figli, che le Madres hanno salvaguardato del passato quella speranza e quel desiderio di giustizia, incarnati nei loro figli, che – direbbe la filosofa Maria Zambrano – meritavano di non essere sconfitti, meritavano più tempo per essere vissuti e che ora vediamo in qualche modo tornare alla luce in Argentina. Ma questo non è stato un processo né semplice né indolore, anzi: le Madres hanno dovuto affrontate un vero e proprio conflitto, l’esito del quale era determinante per salvare una certa eredità simbolica del passato, e sulla quale provare poi a radicare e legittimare l’identità di nuove forme comunitarie. Le Madres hanno portato avanti per anni, senza mai fare “un passo indietro”, un continuo conflitto simbolico con il potere, anche nelle sue versioni formalmente democratiche. I governi che sono seguiti alla fine della dittatura hanno cercato in vari modi di portare avanti delle forme di pacificazione sociale che annullassero la responsabilità dei genocidi. È infatti soltanto recentemente, con il governo di Kirchner, che le leggi assolutorie, che lasciavano impuniti i colpevoli, sono state annullate. Alle Madres fu anche proposto a più riprese di riconoscere la morte dei figli tramite l’esumazione e furono offerti dei risarcimenti economici per indurre le famiglie a dichiarare morti i desaparecidos. Accettare le esumazioni dei corpi di giovani, che, si diceva, erano stati uccisi in combattimento, avrebbe significato non soltanto esonerare dalle loro gravi responsabilità i colpevoli, ma avrebbe voluto anche dire negare la ricchezza del senso di quello che quei giovani erano stati ed avevano desiderato. Le Madres hanno dunque negato al potere la possibilità di decidere sul senso del passato. Sono riuscite a negare al potere il potere della parola. E questo conflitto simbolico, va detto, le Madres lo hanno portato avanti anche in tensione con la società civile. Le Madres furono spesso sole e disapprovate anche nell’Argentina del dopo dittatura, un’Argentina impaurita, indifferente, ripiegata individualmente su se stessa, emotivamente in difficoltà nel fare i conti con il proprio tragico recente passato. È anche in relazione a questo processo di individualizzazione che emerge l’importanza dell’agire delle Madres. Lottando per quello che hanno significativamente chiamato «un pezzettino di cielo» le Madres hanno preservato uno spazio pubblico: lo hanno preservato vivo nonostante il totalitarismo, in primis nella sua forma più evidente della dittatura militare, ma anche dopo nella sua forma meno visibile; hanno cioè contrastato il totalitarismo come forma di vita in cui predomina una condizione di isolamento degli individui e di assenza di rapporti degli uni con gli altri. Si potrebbe dire che le Madres hanno agito come se ritenessero che la società civile dovesse in qualche modo provare pena per la sparizione di quella gioventù, perché era la sua gioventù: era necessario che ne riconoscesse il valore e lo rimettesse in circolazione per tornare ad essere effettivamente civile, per questo “aparición con vida” è una parola d’ordine etica. Lo storico Osvaldo Bayer ha detto che le Madres sono quelle pazze che sono scese in piazza per insegnarci la dignità. Io sottolineerei proprio la parola insegnare. Le Madres hanno cercato di insegnare alla società a riconoscere il valore di quei giovani come condizione ineludibile per reimparare il valore dell’altro. Per salvaguardare quel passato che ha il valore dell’humus nel quale ci si radica per vivere il presente e rendere possibile il futuro, ci vuole sempre qualcuno che sappia farsi carico della sua memoria. La memoria per le Madres è stata anche sempre e inevitabilmente dolorosa. Tenere pubblicamente viva la memoria dei figli ha voluto dire per loro un continuo riaprirsi di vecchie ferite e un aprirsi di nuove. Le Madres hanno raccontato come sia doloroso per una madre decidere di rifiutare l’esumazione. Portare quella memoria attraverso gli anni è stata anche una sofferenza che non passa mai. La sofferenza in sé può anche rimanere insensata, il più delle volte succede proprio così, rimane muta, ripiegata in se stessa, insostenibile. Ci vuole molta potenza amorosa per trasformare la sofferenza in qualcosa di sensato, ci vuole molto amore per trasformare la sofferenza in un “patire sapiente” che insegna ad agire efficacemente insieme con gli altri nel mondo.

Pubblicato il

23.09.2005 04:00
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