"Cercavamo braccia, sono arrivati uomini". Alzi la mano chi, fra i lettori di area, non ha mai citato questa frase per descrivere il rapporto ambivalente avuto dalla Svizzera nei confronti dell'immigrazione, specie di quella italiana. Tutti la conosciamo, quella frase, tutti l'abbiamo già detta, forse anche in più occasioni, e tutti sappiamo che è di Max Frisch. E qui ci fermiamo. Perché, salvo rare e certamente lodevoli eccezioni, nessuno di noi sa da quale opera esattamente provenga quella celeberrima frase. Proviene dalla prefazione ad un libro. Il libro era "Siamo italiani – Gespräche mit italienischen Gastarbeitern" ("Siamo italiani – Colloqui con lavoratori immigrati italiani"), uscito nel 1965 a cura di Alexander J. Seiler. Con il titolo "Siamo italiani" nel 1964 Seiler aveva già realizzato un film documentario a tesi, un pamphlet in immagini, che all'epoca ebbe l'effetto di uno schiaffo: aprì gli occhi su una realtà che sotto gli occhi di tutti già c'era, l'immigrazione italiana in Svizzera e le condizioni di sfruttamento nelle quali si svolgeva, ma che nessuno osava realmente vedere. Come ricordò 40 anni dopo lo stesso Seiler ad area ripensando alla lavorazione di "Siamo italiani", «proprio in quel periodo s'era acceso un vivo dibattito sui lavoratori stranieri in Svizzera, in particolare sugli italiani: ma nessuno era interessato a come vivevano, cosa pensavano, da dove venivano, cosa facevano. Io invece provavo un forte interesse per l'Italia. (...) Siamo entrati in contatto con i vari gruppi di immigrati. Volevamo dipingere un grosso quadro collettivo della situazione, non ci interessavano dei personaggi particolari, dei protagonisti. Il problema è che anche noi li conoscevamo assai poco. Ponevamo quindi ai nostri interlocutori domande molto semplici per indurli a raccontare. E ogni volta avevamo l'impressione di una diga che si squarciasse: le persone che incontravamo avevano un reale bisogno di parlare». È in questo clima dunque, da prime avvisaglie di paura dell'inforestieramento, dell'invasione degli stranieri, della cosiddetta "Überfremdung", che Frisch scrisse quel testo. Un testo folgorante per contenuti e stile, che come spesso accade con l'autore zurighese mescola un'acuta analisi sociale ad un sottile sarcasmo. Lo aveva intitolato "Überfremdung", tradotto in italiano con "L'invasione degli stranieri". E proprio in italiano è ora ripubblicato dall'editore Dadò di Locarno in un volume che raccoglie sotto il titolo "Cercavamo braccia, sono arrivati uomini" una interessante serie di materiali (testi, articoli, interviste, sceneggiature) che in particolare tematizzano il conflittuale rapporto di Max Frisch con la Svizzera. Una riedizione quanto mai opportuna, ad un centinaio di anni dalla nascita e ad una ventina dalla morte di Frisch, perché se il tempo ha cambiato il contesto, non ha mutato l'urgenza degli interrogativi di fondo che egli poneva alla Svizzera e agli svizzeri. Prendiamo, per chi ne dubitasse, un passaggio da "L'invasione degli stranieri": «Lavoratori ospiti o lavoratori stranieri? Io preferisco la seconda definizione: non sono ospiti che vengono serviti per ricavarne del guadagno. Sono persone che lavorano, e che lavorano all'estero, perché nella loro patria al momento non avevano possibilità di campare. Non si può volergliene male. Parlano un'altra lingua, ma anche in questo caso non si può volergliene, soprattutto perché la lingua che parlano è una delle quattro lingue nazionali. Ma questo rende molte cose più complicate. Si lamentano di essere alloggiati in condizioni disumane, a prezzi folli, e non sono assolutamente entusiasti. Il che è inconsueto. Però si ha bisogno di loro. Se il piccolo popolo sovrano non si facesse un vanto della propria umanità e tolleranza e così via, il rapporto con la manodopera straniera, con i lavoratori stranieri, sarebbe più semplice: li si potrebbe sistemare in veri e propri campi di raccolta, dove potrebbero perfino cantare, e in questo modo non riempirebbero di stranieri le nostre strade». Uno scrittore dunque, e già lo si sapeva, che definire scomodo è un eufemismo. Ancora oggi, e forse a maggior ragione oggi, avverte il curatore Mattia Mantovani nella prefazione al volume, che Frisch viene stabilmente collocato fra i classici del '900, e dunque forte è la tentazione della pacificazione, della celebrazione ecumenica, accomodante e rassicurante di una delle poche grandi personalità della letteratura nazionale. Si arriva dunque alla domanda centrale nell'opera dell'autore di "Andorra": chi è Frisch? O meglio, dal suo punto di vista: chi sono io? Una domanda che non ha mai cessato di porsi lungo tutto l'arco della sua attività letteraria e che, come rileva Mantovani, ne determina la specificità e la grandezza. Una domanda che percorre come un filo rosso i testi centrati sul rapporto tra Frisch e la Svizzera che, scritti sull'arco di una quarantina d'anni, costituiscono la parte più corposa del volume appena edito da Dadò. E proprio il testo sulla cosiddetta "Überfremdung" posto in prefazione al volume di Seiler sta all'inizio della fase più acuta del rapporto conflittuale fra Frisch e la Svizzera. Correva l'anno 1965: l'anno in cui Frisch comprò casa a Berzona, da allora in poi il suo domicilio in Svizzera (accanto a Roma, Berlino e New York), ma in una sorta di esilio dai centri di potere nazionali, per quanto ancora all'interno dei patri confini. E opportunamente il volume è corredato di una serie di fotografie che ritraggono lo scrittore nel corso degli anni a Berzona. Sarebbe però riduttivo appiattire Frisch e le sue riflessioni al solo rapporto con la Svizzera (la sua patria? Col punto interrogativo, come intitolò il suo discorso in occasione del conferimento del Gran Premio Schiller, nel gennaio del 1974). Perché le sue riflessioni sono più ampie e profonde, partono dal tracollo dell'Europa nella seconda guerra mondiale per interrogarsi sulla fine dell'Illuminismo. Quasi una sconfitta personale, questa, se è vero che l'unica vera fede di Frisch è proprio stata quella nei valori dell'Illuminismo. Ma è soltanto "quasi una sconfitta". Perché Frisch non si dava mai per vinto. La sua risposta la diede ad esempio in un interessante dialogo sulla crisi dell'Illuminismo e, al suo interno, della sinistra, pubblicato sulla Wochenzeitung nel 1986: «Credo che la resistenza sia l'unica cosa possibile, al momento. Non vedo situazioni rivoluzionarie nel primo mondo, perlomeno non secondo lo schema classico. Eppure viviamo nelle rivoluzioni. Senza barricate e senza vincitori, perché l'elettronica non è una vincitrice, tuttavia è la rivoluzione stessa che per così dire si è messa in moto da sola, e ci sono vittime e profittatori. Resistenza nello spirito dell'illuminismo, certo, ho detto così… La resistenza comincia nel momento in cui tentiamo di pensare. E ciò che ne deriva forse non è nemmeno un'azione, ma è già resistenza». Ognuno può capire quanto queste parole di Frisch ci parlino dell'oggi. Facendo di lui un classico, maledettamente scomodo ma ancora molto prezioso.
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