Volti sorridenti, eleganti e sempre ben truccate. Sono le donne che lavorano al pianterreno della Manor di Lugano, dove ci sono le marche di profumi, di gioielli e prodotti di farmacia. Ma si sa, l'apparenza inganna ed è l'anima del commercio. In realtà sono donne con salari bassi, confrontate con vari problemi e sovente costrette a lavorare per poter mantenere la famiglia. A casa poi, il doppio lavoro, quello non riconosciuto e non stipendiato di casalinga e di madre. Ma sul posto di lavoro, nulla di questo deve trasparire. Vietato sedersi anche solo per un momento, vietato mettersi una sciarpa o un dolcevita quando d'inverno tira un'aria gelida dall'enorme entrata sempre aperta. Divieto anche di parlare troppo a lungo con le clienti. Bisogna vendere, non parlare. Fughe di corsa e di nascosto in bagno per i bisogni fisiologici. Guai a farsi beccare. Attenzione poi ad avere dei problemi in famiglia. Il volto preoccupato non è accettato. Questa la realtà dietro la vetrina. Raccontiamo la storia di alcune di loro, che dopo 30 anni di lavoro, si ritrovano disoccupate.
Che le cose non vadano al meglio alla Manor nei reparti profumeria, gioielleria e farmacia, lo si capisce dai numeri di rotazione del personale. 23 persone su 50 posti di lavoro in quattro anni. Le cause sono molte. Tra queste, un progressivo passagio di potere dalle ditte che affittano gli spazi per vendere i loro prodotti cosmetici o di gioielleria alla Manor. Fatto che genera non poca confusione su chi sia il "vero" datore di lavoro. Si aggiunge poi l'atteggiamento di una caporeparto, ansiosa di mostrarsi ai suoi superiori come inflessibile nel rendere il più flessibile possibile le dipendenti. Un atteggiamento ovviamente condiviso dalla direzione, soddisfatta di avere un personale ricattabile e dunque disposto ad accettare tutte le esigenze dell'azienda. Altrimenti, "la porta è quella". Se poi si tratta di collaboratrici con esperienza da sostituire con personale giovane e senza qualifica, permette di spendere meno in oneri sociali e in salari minimi da rispettare. Il classico due piccioni con una fava. «Dopo il licenziamento, ci sono voluti 6 mesi prima che tornassi a Lugano, e altri 6 mesi prima di rientrare alla Manor», Giuliana*, 57 anni, di cui venti trascorsi a lavorare per una ditta di profumeria che ha il suo stand all'interno del pianterreno della Manor in centro a Lugano. «Ho iniziato quel tipo di lavoro per necessità economica, avendo tre figli da crescere. Ma l'ho fatto anche con entusiasmo. Mi piaceva il contatto con le persone, l'ambiente era gradevole ed ero soddisfatta del mio lavoro». Poi le cose sono cambiate, come racconta Giuliana: «Negli ultimi cinque anni, si capiva che qualcosa stava cambiando. Il mio contratto di lavoro era sempre con la ditta di profumi, ma con il passar del tempo gli ordini non li prendevo più da loro, ma dalla caporeparto della Manor. Negli anni precedenti, la ditta per cui lavoravo difendeva il suo personale, definendo in modo chiaro fino a dove la Manor poteva imporci le sue regole. Col tempo invece la situazione è diventata più confusa. Ad esempio, la ditta ci dava indicazioni dettagliate su come doveva essere sistemata la merce sul bancone, inviandoci una foto su come dovevamo allestire lo stand. Noi eseguivamo, poi passava la capo reparto Manor e diceva che secondo lei dovevamo esporre la merce in un altro modo, che era tutto da rifare. Segnalavamo il fatto alla ditta, ma non succedeva nulla. Finivamo quindi con eseguire il volere della caporeparto e non quello della nostra ditta.» Una confusione che non aiuta a far chiarezza sulle condizioni di lavoro. Gli orari ad esempio. «In precedenza, avevamo degli orari da seguire prescritti dalla ditta: dalle 9 alle 18, con un'ora di pausa pranzo. Poi ci hanno obbligate a seguire gli orari Manor, dalle 8.15 fino alle 18.30, sempre con un ora di pausa. Siamo quindi passate dalle 8 ore di lavoro alle 9 ore e 15 minuti.» Ma il peggioramento delle condizioni di lavoro non è il frutto esclusivo del cambiamento di comportamento della Manor. Anche la ditta di profumi ha modificato in modo sostanziale le regole del gioco. Lo descrive Giuliana: «In qualità di responsabile e dopo oltre 17 anni di lavoro, il mio salario era 3700 franchi lordi all'80 per cento. Nel 2003, la ditta ci invita ad una riunione in un lussuoso albergo a 5 stelle, nella zona collinare di Zurigo. Nella prima ora ci informano sui cambiamenti nella retribuzione del bonus previsto. Fino ad allora, se veniva raggiunto l'obiettivo vi era un premio di 150 franchi a tutte le dipendenti di uno stand, indipendentemente dalla loro percentuale lavorativa. Di norma, l'obiettivo era il 5 per cento di cifra d'affari in più rispetto all'anno precedente. Ora ci comunicano che il premio sarà di 1000 franchi se lavori al 100 per cento, 800 franchi se lavori all'80 per cento e così via. Naturalmente, siamo tutte soddisfatte, perché così come prospettato, sembra un aumento. Nella seconda parte della giornata, viene a galla la fregatura. Il mio salario fisso, dai 3700 diventa di 3'120 franchi lordi mensili. Obiettivo da raggiungere per avere diritto al premio, aumentare del 17,8 per cento le vendite. Obiettivo irrealistico. Risultato, una riduzione di paga netta del 16 per cento. Il tutto ovviamente a norma di legge. Il vecchio contratto doveva essere disdetto nei termini prescritti dalla legge e poi si sarebbe dovuto firmare il nuovo con le condizioni peggiori. "E chi non volesse?" ha obiettato una ragazza. "Meglio farlo, se si vuole il posto", la risposta della manager. Liberi di scegliere come morire, insomma». Il mancato raggiungimento degli obiettivi sarà poi il "movente" per giustificare il licenziamento di Giuliana. Guarda caso, proprio 5 mesi prima di raggiungere i 20 anni di lavoro con la stessa ditta, una fedeltà che sarebbe stata premiata da contratto con il versamento di un salario in più. Visti i cambiamenti e il peggiorarsi delle condizioni sul posto di lavoro, Giuliana, esausta dopo oltre 9 ore in piedi senza sosta, quando rientra a casa ha il morale a terra. Ha paura per il suo futuro professionale. Scrivere è il suo modo di sfogarsi, di raccontare la sua frustrazione. La calligrafia è incerta, dovuta alla stanchezza fisica e al logoramento psichico. Ecco alcuni passaggi significativi: «Io penso che erano già tutti d'accordo e ci hanno ridotte come schiave con la speranza che ce ne andassimo da sole. Visto che non lo abbiamo fatto, ci hanno licenziate loro. È stato un rinnovamento di personale per assicurarsi personale più giovane, da pagare meno e manipolare meglio». Non riesce a farsene una ragione: «Eppure ho fatto tanto. Ho cresciuto tre figli ed ora dovrei ricominciare da capo. Potrei anche essere una semplice operaia, ma almeno non dovrei essere sempre confrontata a quelle cifre da raggiungere, che poi è una corsa sfrenata al consumo».
* nome di fantasia
"Scaricata senza colpa"
Elide*, anni 56, ha una storia molto simile a quella di Giuliana. Inizia a lavorare per Innovazione per circa 5 anni. Viene poi assunta da una ditta di profumi presente all'interno del grande magazzino, per la quale lavorerà per altri 15 anni. Un giorno, la brutta sorpresa. Licenziata con regolare disdetta, ma con la "generosa" possibilità di andarsene subito. «Ero furiosa. Lasciandomi subito a casa, sembrava come se fossi stata licenziata in tronco. Così viene licenziato solo chi ruba», racconta Elide. Da quel momento inizia una perdita di autostima, dovuta alla difficoltà di capacitarsi del vero motivo del licenziamento. «Quello che mi feriva di più era quando incontravo per strada i miei clienti e mi domandavano: "Ma cosa hai combinato?». Avere il dubbio di sentirsi colpevole per qualcosa che in realtà non si è fatto. È sicuramente una brutta sensazione, che può minare lo stato d'animo più forte. Non per nulla, Elide è tutt'ora in cura da un psicoterapeuta. Come Giuliana, aveva iniziato a lavorare dopo una separazione, con la necessità di avere un figlio da crescere. E come Giuliana, Elide era molto felice del suo lavoro. Lo faceva divertendosi, in un bell'ambiente e solidale. Così per molti anni. «Poi sono cominciate a cambiare le cose. Il progressivo passaggio di potere dalle nostre ditte di profumi alla caporeparto di Manor ha peggiorato le condizioni di lavoro. Il clima di lavoro era diventato pesante e pressante, da continua competizione tra le lavoratrici. Lo scopo, neanche troppo velato, era di piegare le resistenze ad un nuovo sistema di ubbidienza e di flessibilità agli orari. Chi non lo rispettava, era fuori gioco. Naturalmente, è ancor più difficile adeguarsi per chi ha già una vita sulle spalle. Si è meno propensi a piegarsi e ad ubbidire senza fiatare». Elide è convinta che sia questo il vero motivo della rottura del contratto. Licenziata perché alla sua età, oltre a rappresentare un costo salariale maggiore, è meno disposta a sottomettersi ai diktat, diventando un pericoloso esempio di resistenza per le altre dipendenti. E adesso Elide? «Ora sto aspettando che si concluda la vertenza sindacale nei confronti della mia ditta e della Manor. Ma il grosso problema è trovar lavoro. A 56 anni non è per nulla facile». Oltre il danno del licenziamento, arriva anche la beffa; sul formulario della disoccupazione, la ditta ha dovuto scrivere la motivazione del licenziamento: incompetente e carente professionalmente. «Ho pianto per giorni. Dopo 15 anni di lavoro, sentirti dire queste cose, fa male. Possibile che ci sono voluti così tanti anni per valutarmi come incompetente? Oppure la verità è un'altra?» conclude retoricamente Elide.
* nome di fantasia
Sono donne e uomini, non merce scaduta
I casi di Giuliana e di Elide, non sono purtroppo esempi rari nel mercato del lavoro. Non sono neanche riconducibili solo al caso specifico del loro datore di lavoro, ma è una situazione molto diffusa. Molti ultra 55enni vengono espulsi dal mercato del lavoro perchè "cari" dal punto di vista salariale e meno propensi alla flessibilità sempre più estrema richiesta dall'azienda. Una flessibilità che mira soprattutto a rendere disponibili le lavoratrici alle necessità dell'azienda, stravolgendo la distinzione fra orario di lavoro e orario disposizione per la propria vita sociale. La loro esperienza, la fedeltà dimostrata e i servizi resi, non hanno un gran peso nell'attuale mercato del lavoro. Un mercato diventato sempre più competitivo dopo l'apertura al bacino di lavoratori del nord italia con i bilaterali. Spesso queste persone sono confrontate ad una serie di problemi psicologici, che difficilmente possono superare da sole. Altra possibilità, quella di iscriversi alla disoccupazione. Ma gli stessi collocatori ammettono che trovare lavoro a questa età è molto, molto difficile. Secondo i dati forniti dall'Ufficio di statistica cantonale, nel gennaio 2006 gli oltre 50enni disoccupati nel canton Ticino erano 1811, mentre quelli compresi nella fascia d'età tra i 40 e i 49 anni erano 1971. L'indennità disoccupazione non è poi eterna. Sono 250 indennità dai 50 ai 60 anni. Diventano 400 indennità oltre i 60 anni. Terminate quelle, resta la sola possibilità di far ricorso all'assistenza fino all'età di pensionamento. Limite d'età che per le donne è stato recentemente allungato a 65 anni come gli uomini. Da notare che le cifre sui disoccupati prima citate si limitano alle persone iscritte in disoccupazione. Ne sono escluse invece coloro che hanno esaurito il diritto. Ricapitolando, una persona che ha lavorato per trent'anni, viene licenziata perchè "cara", meno disponibile a piegarsi ai voleri superiori, dopo due anni di disoccupazione deve ricorrere all'assistenza sociale in attesa di arrivare all'età di pensionamento. Siamo sicuri che è questo il progresso?
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