Apparirà strano e forse burlesco rifugiarsi nell’Isola di Pasqua... forse perché siamo in tempo pasquale. Fosse pure con il pretesto che proprio trecento anni fa, la domenica di Pasqua, su quell’isola vulcanica sperduta nel Pacifico, sbarcò per primo un olandese che le appioppò quel nome. Eppure può esserci un senso attuale, esemplare, su cui ci si può soffermare e meditare. È difficile negare che esista un problema con il clima. Persino i caporioni dell’Udc, che vi hanno trovato un altro motivo per dire peste e corna, dovendo ammetterlo e accettare qual-che regola, qualche sacrificio o qualche costo per farvi fronte (tutte cose che non piacciono al “nostro popolo”) tentano la solita fuga per la tangente sostenendo che... se ne fa una “questione ideologica”. Insomma: fermi lì, è inquinamento da sinistra (statalismo, regole, tasse) e ci penserà il “nostro” Roesti, sistemato neoministro dell’ambiente, a provvedere. Di fronte alla minaccia climatica sembrano esserci tre posizioni: una di lotta, scompaginata, contro le cause degli inconvenienti per ottenerne almeno una attenuazione; il ricorso alla geoingegneria; l’adattamento. L’attenuazione degli effetti (atteggiamento che si sposa con la riduzione del problema a questione “ideologica”, prevalente a destra) sa di paradosso esistenziale quando sta maturando l’evidenza che senza un mutamento dei modi di vita e di sviluppo si andrà a sbattere contro il muro, sarà il disastro, anche economico. Quanto alla geoingegneria che vuol cambiare il clima del Pianeta con tecniche su grande scala che sopprimano il CO₂ nell’atmosfera e riducano l’effetto serra, ci si trova spesso con il tentativo sottaciuto di prolungare il più possibile la dismisura che ci ha portato dove ci troviamo. L’adattamento emerge invece ora più come lo scenario più probabile: non possiamo fare a meno della crescita e di ciò che la permette (combustibili fossili; energia nucleare; sfruttamento della natura e spreco del territorio): non ci sarà la catastrofe che metterà fine ai nostri mali, ci sarà invece una lunga inevitabile prosecuzione, ma con spirale discendente di quei mali, sapendoci via via adeguare. Che c’entra allora l’Isola di Pasqua? C’entra come esempio anticipato di “ecocidio”. “L’esempio più sconvolgente di una società che è stata responsabile della sua propria estinzione, sovrasfruttando le risorse di cui disponeva” (v. “Collasso”, Einaudi, dello studioso americano Jared Diamond). Quando verso il 1200 un piccolo gruppo di polinesiani vi sbarcò, l’isola, a 3.500 chilometri dalla costa del Cile, era coperta da decine di milioni di alberi d’alto fusto. Quei coloni, che praticavano l’agricoltura sul bruciato (il fuoco ritenuto fertilizzante), abbatterono gli alberi, li bruciarono, aprendo grandi spazi alla coltura. Finì che non c’erano più alberi, neppure per costruirsi delle canoe per pescare, e limitata scelta alimentare. La società a poco a poco scomparve con tutte le sue divinità. Sono rimaste disseminate delle gigantesche misteriose statue monolitiche, i “moai”, con un tozzo e beffardo cilindro di tufo rossastro sulla testa, che guardano disperate verso l’interno dell’isola spoglia. Vien da pensare che tra non molto quando i ghiacciai e la neve scompariranno dalle Alpi, anche Thomas Mann, l’autore della “Montagna incantata”, una divinità nella nostra gioventù perché consacrava per l’eternità letteraria le Alpi svizzere, apparirà forse come un autore esotico, un moai rimasto ancora là, a guardare nel vuoto, nonostante si tenga ogni anno da quelle parti, con i grandi della Terra collassata, un Forum economico mondiale.
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