Quel filo dorato tra Ticino e Darfur

Protagonista della guerra in corso in Sudan il generale Hemeti deve il suo potere al controllo dell’oro che potrebbe essere arrivato anche in Svizzera

Vi sono luoghi del mondo all’apparenza lontani, ma uniti da relazioni pressoché invisibili. È impercettibile, ad esempio, il filo che unisce il Ticino e il Sudan. Un cantone svizzero da un lato e, dall’altro, un paese africano, teatro da oltre un mese di sanguinosi scontri: niente sembra unire queste due terre. Eppure, in filigrana, un sottile filo d’oro lega inesorabilmente una raffineria ticinese ad uno dei protagonisti di questa nuova guerra africana: il generale Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemeti. Certo, il legame non è diretto. I sentieri dell’oro sudanese sono tortuosi e, prima di arrivare in Svizzera, fanno sponda a Dubai, centro nevralgico di questo commercio opaco. Una triangolazione volta a far perdere le tracce, come fanno dalla notte dei tempi gli abitanti del deserto. Nell’era della globalizzazione, però, non tutto può essere cancellato.

Per risalire la pista occorre prima un po’ di contesto. I violenti scontri in Sudan, iniziati lo scorso 15 aprile, sono il risultato di una lotta di potere tra le due fazioni militari emerse dopo la destituzione, nel 2019, di Omar Bashir, al potere da trent’anni: da un lato il generale Abdel Fattah Burhan, presidente dall’ottobre 2021; dall’altro il generale Hemeti, vicepresidente e comandante dei paramilitari delle Rapid Support Forces (Rsf). Uno dei principali fattori di conflitto è il controllo dell’economia sudanese, di cui l’oro è oggi un settore chiave. Non è sempre stato così. Fino a un decennio fa, la ricchezza nazionale era trainata dall’esportazione del petrolio estratto nelle regioni meridionali.

 

Poi però, nel 2011, il Sud Sudan è diventato uno Stato indipendente e Khartum non ha più potuto contare sulla manna petrolifera. L’impatto per il paese è stato devastante. A salvare – e scombussolare – l’economia nazionale vi è stata la scoperta, nel 2012, di un nuovo filone aurifero. Il Sudan esportava già dell’oro, tramite alcune miniere industriali situate in zone relativamente tranquille dello Stato. La notizia di nuovi depositi di metallo giallo nella martoriata regione del Darfur ha però decisamente cambiato le carte in tavola.

Il padrone della “Svizzera”


È l’aprile del 2012, quando un piccolo gruppo di lavoratori scopre una vena aurifera sulle colline di Jebel Amir, nel nord del Darfur. Una delle miniere pare così produttiva che viene soprannominata “Svizzera”. Come spesso è il caso, la scoperta di una materia prima non è per forza una buona notizia. Anzi. In questa regione già teatro di una guerra civile e di una pulizia etnica, ecco piombare decine di migliaia di cercatori d’oro. Le tecniche utilizzate per l’estrazione sono rudimentali e inquinanti a causa dell’utilizzo di mercurio e cianuro. Inoltre, in queste terre martoriate, l’oro attira gruppi più o meno organizzati di uomini armati che tentano di prendere il controllo sull’estrazione e il commercio.

 

È in questo contesto di forti tensioni tra comunità che emerge il nome di Mohamed Hamdan Dagalo, alias Hemeti. Ex commerciante di cammelli, Hemeti ha già combattuto in Darfur guidando le sanguinarie milizie filo-governative dei Janjaweed, letteralmente “diavoli a cavallo”. Nel 2013, di fronte alle nuove violenze, Hemeti viene nominato da Bashir al comando di un gruppo di migliaia di guerriglieri, da allora chiamato Rapid Support Forces. Il generale prende così il controllo della zona di Jebel Amir e, a suon di esazioni, diventa l’incontrastato re dell’oro del Sudan.
In teoria, solo la Banca centrale sudanese ha il diritto di acquistare il metallo giallo estratto artigianalmente e di venderlo all’estero. In realtà si stima che il 90% di tutto l’oro prodotto in Sudan viene esportato, soprattutto a Dubai, attraverso canali opachi. A controllare questo commercio miliardario, vi è proprio Hemeti che ha piazzato alcuni suoi familiari alla guida delle locali società di commercio.


Nel 2019, assieme al capo dell’esercito Burhan, Hemeti volta le spalle a Bashir e organizza un colpo di Stato. Il suo ruolo nel  cambio di regime gli conferisce la seconda posizione più potente nel nuovo governo sudanese. Hemeti viene dipinto come un eroe, ma per molti rimane il “macellaio del Darfur”. Un militare divenuto ricchissimo al punto da prestare un miliardo di dollari alla Banca centrale trovatasi in difficoltà a seguito dell’inflazione post colpo di Stato. Soldi che vengono dall’oro, ma anche dal suo altro grande business: la fornitura di mercenari. Ben 16.000 dei suoi miliziani sono stati schierati come parte della coalizione saudita in Yemen. Le Rsf controllano anche il commercio e la migrazione nella regione di confine con la Libia dove sono anche intervenute militarmente a sostegno del generale Haftar. Inoltre, Hemeti ha stretto legami d’affari e militari con il gruppo Wagner di Yevgeny Prigozhin. Non è un caso se, il giorno dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia – il 24 febbraio 2022 – il sanguinario capo delle Rsf era a Mosca per intrattenersi con il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov.

La pista ticinese


Se si dice oro, non può non venire in mente il Ticino. Le tre grandi raffinerie del Mendrisiotto – Valcambi, Argor-Heraeus e Pamp – raffinano una buona parte dell’oro mondiale. Sulla carta, l’oro sudanese non entra più in Svizzera da dieci anni. Ciò non esclude che possa essere transitato prima da Dubai da dove, tra il 2012 e il 2022, è stato importato oro per un valore di quasi 77 miliardi di franchi. Quantitativi impressionanti dato che l’Emirato non possiede miniere, ma è solo un luogo di transito.

 

Il problema è che Dubai è noto per le sue transazioni opache e per i suoi discutibili canali di approvvigionamento, in particolare per quanto riguarda proprio l’oro di contrabbando africano. Sul posto l’oro è spesso venduto al souk, sorta di bazar senza regole, da dove viene poi venduto a raffinerie locali che lo trasformano in lingotti. Tuttavia, se si vuole commercializzare il metallo giallo a livello internazionale è necessario il timbro di una raffineria membro della London Bullion Market Association.

 

Tra queste la più grande del mondo è la Valcambi, basata a Balerna, ex filiale di Credit Suisse oggi controllata dal produttore indiano di gioielli Rajesh Exports. Come ricordato di recente anche dal Tages Anzeiger, la Valcambi, principale importatore svizzero di oro dagli Emirati, è stata criticata per la sua collaborazione con il controverso gruppo Kaloti, la più grande raffineria di Dubai. Il motivo? Kaloti è stato per anni il principale cliente della Banca Centrale e della raffineria di Khartum. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, era chiaro che la Banca Centrale acquistava oro dalle parti in guerra nel Darfur, e quindi dal generale Hemeti. Kaloti è stata screditata anche in seguito alla pubblicazione, nel 2014, di un rapporto di revisione contabile che dimostrava che la società non aveva svolto alcuna due diligence, in particolare in Sudan. Malgrado ciò, a differenza di altre raffinerie elvetiche, Valcambi ha continuato a fare affari con questa controversa società: secondo uno studio dell’Ong Swissaid, tra il 2018 e il 2019, Kaloti, e una società a lei strettamente collegata, hanno esportato 83 tonnellate di oro alla Valcambi.

 

La raffineria oggi dichiara di non avere più nulla a che fare con Kaloti dal novembre 2019 e ha sempre negato di avere importato oro dalle zone di conflitto. Ma come può esserne certa, visto che ha importato così grandi quantità da una società controversa come Kaloti? Il mistero rimane dato che il metallo giallo si mischia, si fonde e, per sua natura, fa perdere le tracce. Anche quelle più sanguinanti

Pubblicato il

26.05.2023 10:05
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