Nel mio Mac è rimasto uno scritto, battuto la sera del primo maggio scorso. Facevo queste riflessioni: «È tristissimo e raccapricciante pensare alla morte di Leo, il diciassettenne venezuelano. È triste e raccapricciante cominciare a capire che forse sono stati altri minorenni, o giovani, o “amici” ad assassinarlo. Ci affanneremo comunque tutti a cercare di capire, di farci una ragione; ci sarà chi continuerà a pensare che in fondo è una storia tra stranieri. E poi ci sarà chi riuscirà a vedere dietro questi assassini e assassinati la loro disperazione, la loro solitudine, le vittime della miseria, le vittime del torto fatto loro dal mondo degli adulti. Ci sono infatti domande molto concrete che concernono noi adulti che abitiamo questo territorio, politici, operatori, cittadini. E sono queste domande che devono interrogarci. • Come è mai possibile che da noi una Commissione tutoria non abbia altra scelta da offrire ad un diciassettenne, solo e in difficoltà, che una stanza in un “hotel” assieme ad altri disperati? • Come è mai possibile da noi che il gerente di quell’ hotel (persona che certamente si dà da fare) diventi nei fatti la figura sociale di riferimento per questi giovani, come pare di capire dalla sua intervista (laRegione 30 aprile ‘05)? Il massimo che viene offerto da noi? Credo che questa nostra realtà, del Ticino di oggi, delle scelte politiche di oggi, dei silenzi di oggi, sia il vero aspetto radicalmente disumano di questa tragedia. La domanda che va posta, proprio partendo dalla situazione in cui Leonardo e molti altri si trovano, è quella di sapere se in Ticino esistono una politica e strutture efficaci per far fronte al disagio di ragazzi e giovani problematici. Non dico per risolvere i loro problemi, perchè questo non è sempre possibile, ma almeno per far sì che giovani e famiglie in difficoltà possano sapere che esiste sul territorio quanto si può pretendere da un paese come il nostro. Potremo allora scoprire quanto realmente e concretamente disumano sia il vuoto lasciato dalla nostra politica sociale. E sapremo che della tragedia di Leo dobbiamo anche noi farcene carico. Questa riflessione potrebbe essere dedicata a Leonardo e ai suoi assassini. La loro storia sarà stata allora, forse, meno tragicamente inutile. E metteremo alla luce un settore certamente molto carente, cioè realmente disumano, della nostra politica sociale; non di ieri, ma di oggi, da noi, giù fino negli “hotel” dei disperati, sparsi su tutto il territorio, dove i poveracci vengono mandati, come ultima illusoria soluzione, visitati, se va bene, da operatori sociali sempre più oberati e sfiduciati per assenza di mezzi e strutture a disposizione. L’ultima fregatura ricevuta dal mondo degli adulti». Cari compagni, ora vorrei capire Ho messo in relazione queste riflessioni con due interventi del capo del servizio sociale del Dss – in una trasmissione di Falò (“Naufraghi a 15 anni”) e poi ancora in un Quotidiano Tsi – e mi sono proposto di esternare le mie considerazioni sperando di aprire un dibattito proprio partendo da area. Questo giornale ha più volte affrontato le problematiche del disagio giovanile e delle politiche di esclusione. Inoltre quanto il capo del servizio sociale esprime, deve essere considerato, date le circostanze, la voce del Dss. La politica del Dss deve interessare tutti, ma tra chi non può tacere c’è certamente la sinistra nella quale mi riconosco. L’allarme sull’assenza di strutture e risorse adeguate viene da tempo evidenziato da tutti gli operatori, dai servizi, dalle Commissioni tutorie regionali (Ctr), dai magistrati, dai poliziotti, dagli psichiatri, dalle famiglie coinvolte (che appena riescono, a fasi alterne, ad aver la forza di sussurrare “aiuto!”). A sinistra sono riportati alcuni passaggi di quanto si è letto. La situazione mi pare diventi preoccupante alla luce della visione che di queste problematiche sembra invece uscire dal Dss nella persona del Capo del servizio sociale, in una trasmissione importante come Falò e che vale la pena di riprodurre praticamente per intero (cfr. testo a destra) perché esterna una visione ben precisa (ribadita in un Quotidiano Tsi) e perché non sarebbe né utile né corretto estrapolare qualche frase che potrebbe essere nata in modo infelice dall’immediatezza dell’intervista. Dopo questa intervista non è possibile eludere la domanda: quale politica ha il Dss? Nei fatti, non nelle parole. Mi chiedo: •Perché questi problemi vengono banalizzati a tal punto (in Ticino ci sarebbero meno di dieci ragazzi “turbolenti”)? • Perché tanta discrepanza tra quanto vivono gli operatori, i giovani, le famiglie in difficoltà, tutti, e quanto viene raccontato dal capo del servizio sociale del Dss? • Perché si vuol far credere che i giovani che ne avranno bisogno saranno seguiti in famiglie (sic!), in pensioni (sic!), in «posti mirati» dove «ci saranno operatori che avranno rapporti uno a uno individuali e quotidiani»? Ma per favore! • Perché si vuol far credere che non sono necessarie strutture, ma che la risposta che verrà sarà «adeguata al bisogno e al disagio che esprimono in maniera molto soggettiva e in maniera molto individuale»? • Perché il Dss conta solo otto o dieci ragazzi bisognosi di un forte aiuto (non sono “turbolenti”, è tutto molto ma molto più complicato e difficile) e io, che sono solo un genitore, potrei fare una lista ben più lunga? E ancor più lunga se ne consultassi altri. E quelli che sono in collocamento in Svizzera interna, a Mendrisio, in carcere? Quelli che non hanno 18 anni, ma 18 anni e 3 mesi? Tutti fuori dal conteggio? (1) • Perché questo modo banalizzante e povero di affrontare una problematica tanto grave e complessa? Non vengono ascoltati i collaboratori che si trovano al fronte? «…La sofferenza di questi giovani non è quindi semplicemente reattiva al disfunzionamento del contesto familiare, come sovente si vuol far credere in assenza di soluzioni residenziali terapeutiche adeguate, ma l’adolescente stesso alimenta il disagio a causa della problematicità della sua personalità e delle sue modalità relazionali. Il compito di una struttura terapeutica è dunque quello di attivare, permettere dei cambiamenti di fondo nella struttura della personalità di questi giovani…» (Luca Forni, Direttore del Pao, laRegione 21 dicembre ’05). • E se è così, perché vengono addirittura chiuse strutture? Quando la nave affonda, non si butta una scialuppa perché magari non è omologata a dovere. Prima si supplisce, poi si sostituisce, semmai. A meno di non crederci. C’è poi anche chi dice (anche il Dss?) che manca la “massa critica”, che è come dire che le ambulanze devono far servizio solo nelle città e non nelle valli, per assenza di “massa critica”! • E quei “turbolenti” (sono sempre quegli otto?) che hanno costretto alla chiusura del Pao? Il Dss pensa di metterli in affido nelle famiglie? Nelle pensioni? Ma scherziamo? Leggo che il Capo del servizio sociale rassicura: «Per prima cosa è stata trovata una collocazione temporanea adeguata (dove, chiedo) per i sei giovani ospiti del centro… Gli educatori prenderanno ora una “vacanza forzata” per cercare di riprendersi dai difficili momenti passati» (Corriere del Ticino 5 gennaio ‘06). “Vacanza forzata”? Ma allora è vero che anche le famiglie non ce la fanno più, giusto? E chi le aiuta? area ha pubblicato il 5 dicembre 2003 un corposo intervento di Tiziana Filippi (“L’alba dello Stato penale”) da cui traggo una citazione: «Nel cabaret della globalizzazione lo Stato si esibisce in uno spogliarello al termine del quale rimane con indosso lo stretto necessario: i suoi poteri repressivi». Sono le problematiche che la sinistra ha sempre dovuto affrontare nei momenti di crisi sociale. V’è da chiedersi al proposito se da noi, al di là delle intenzioni, la logica profonda della risposta al disagio sociale giovanile (quella reale, dei fatti concreti, non quella delle parole) non si inserisca in realtà, oggettivamente, nella logica brutale della repressione del malessere giovanile. Infatti a furia di non dare risposte adeguate, le uniche risposte praticabili, solide e concrete, sono il carcere e la clinica psichiatrica dove, in assenza di altre strutture, vari dei nostri giovani trovano collocazione sicura. E per di più paga in genere l’Ai e/o la cassa malati o lo Stato (ma alla voce incomprimibile: “esecuzione delle pene”). Quel che deve preoccupare è che chi ha parlato per il Dss non ha avanzato eventuali (e comunque ingiustificati) problemi finanziari. Senza saper proporre un discorso che possa apparire minimamente serio e adeguato alla realtà, sono invece state messe in dubbio e minimizzate le richieste degli operatori, degli psichiatri, delle famiglie, di chi sta al fronte e dei giovani stessi. Già, dei giovani stessi? In fondo chissà: quel ragazzo che è andato a far casino, e non solo, nei giorni di Natale al Pao – Centro di Pronta Accoglienza, un “pronto soccorso” insomma – uscendo dalla sua pensione in cui era stato “collocato” (si dice così in gergo), forse a suo modo chiedeva “accoglienza”. Suppongo che nel frattempo avrà trovato quella del carcere. È questa appunto la logica quando si lavora in emergenza. E mi ritorna alla mente a questo punto la domanda fatta dal bravissimo conduttore di Falò: «Un ragazzo che esce da un’inchiesta... ma noi lo ritroviamo in un albergo. Ma è questo il modo di trattare un ragazzo con questa problematica?». E mi ritorna pure in mente Leonardo, il diciassettenne, uscito anche lui, a primavera, dalla “sua” pensione di Giubiasco e finito ammazzato da due magari coi suoi stessi problemi. Chiamiamoli pure “turbolenti”, per non allarmare troppo. Sono una decina vero? Compagne e compagni, io vorrei capire. 1) Ma è proprio dalla sinistra, dai sindacati, e persino dal Tribunale Federale (in materia d’assistenza dei genitori dopo la maggiore età) che viene il rifiuto di considerare la maggiore età un’età adulta, che può lasciare il giovane senza protezione (rispetto al lavoro notturno, per esempio). E perché proprio per i giovani in difficoltà dovremmo invece fermarci ai 18 anni? Compagne e compagni, io vorrei capire. Segnali d’allarme • A proposito dei giovani minorenni fermati in dicembre a Chiasso, Silvia Torricelli, magistrato dei minorenni, laRegione 7 dicembre ’05: «…non si può fare molto. Sempre più delle situazioni di cui si occupano la magistratura, i servizi e la Tutoria non trovano uno sbocco in una struttura adeguata, dove è possibile avviare un progetto serio (...) In questo modo non c’è nemmeno la possibilità di provare. E imboccare una strada che registra un buon successo. Non posso che augurarmi quindi che, prima o poi, il problema venga affrontato». • Flavia Marone, presidente della Commissione tutoria regionale (Ctr) di Bellinzona, laRegione 17 marzo ’04: «Se, per esempio, dobbiamo collocare un giovane con problemi di tossicodipendenza, siamo costretti a fare capo, anche se la soluzione non è ideale, alla Clinica psichiatrica cantonale di Mendrisio. Stesso discorso quando siamo alla ricerca di una struttura che possa accogliere un adolescente qualora i genitori non siano, per motivi diversi, più in grado di accudirlo (...) Un potenziamento sarebbe necessario sia a livello di persone che di strutture. In tal senso rivolgo un invito alle autorità a non sottovalutare questi aspetti in quanto trovare delle soluzioni valide significa anche mantenere il benessere dell’intera comunità». • Patrizia Casoni Delcò, Magistrato dei minorenni supplente, Corriere del Ticino 12 maggio ’05: «Ho appena appeso il telefono. Rifletto. I sentimenti sono contrastanti e vari: da un lato il senso di desolazione di fronte all’ennesima storia di disperazione e disagio, dall’altro la percezione dell’inevitabile frustrazione dinnanzi ai molteplici limiti di cui le istituzioni, tutte le istituzioni e coloro che le animano, sono portatrici. Quello che domina è il silenzio dei pensieri che si rincorrono... Un adolescente - al quale ho decretato un sostegno educativo esterno – ha ingerito una dose massiccia di medicamenti. All’ospedale i medici sono intervenuti senza perder tempo e l’adolescente il giorno seguente è stato dimesso: il suo fisico si è ripreso ma il suo disagio, il suo malessere resta. Il medico specialista decide per un ricovero coatto in una clinica psichiatrica. L’adolescente è sistemato nel reparto chiuso, a stretto contatto con adulti con patologie psichiche gravi. Un educatore mi segnala la grave situazione di un ragazzo che seguo da mesi… Il giorno stesso mi attivo alla ricerca di un centro che possa accoglierlo per un’osservazione. Mi arrendo innanzi all’ennesimo rifiuto… Finalmente un istituto fuori cantone accetta di mettere il suo nome in lista d’attesa. A oltre due mesi da quella telefonata, aspetto ancora di poterlo collocare!...». • Silvia Torricelli, Giudice dei minorenni, Corriere del Ticino 22 settembre ’05: «…In Ticino vi è un ragazzo che aspetta di poter accedere all’istituto di Sion. Un altro ticinese attende invece che si liberi un posto in un’analoga struttura a Berna…». • Bettina Matern Rivieri, Centro Giovani Chiasso, Corriere del Ticino 14 dicembre ‘05, area 16 dicembre ’05: «Io mi trovo di fronte al problema di non sapere dove collocare il ragazzo. Non ci sono posti, chi vorrebbe accoglierlo in un foyer non ha personale e posti a sufficienza…». •Mauro Mantovani, ispettore di Polizia, area 16 dicembre ‘05: «…Mio malgrado mi sono ritrovato in prima linea a contatto con numerosi casi sociali, talvolta disperati... Ci sono mamme che mi telefonano perché non sanno più cosa fare e mi chiedono di intervenire, di parlare loro. Sono minorenni e giovani adulti. Tra loro vi sono ragazzi e ragazze che, se non recuperati in tempo, possono anche correre il pericolo di essere agganciabili come piccoli spacciatori». • Luca Forni, direttore dell’Istituto per minorenni Torriani e del Pao, laRegione 21 dicembre ’05: «Un altro aspetto che mi preoccupa, in effetti, è la ricaduta di quest’assenza di una struttura terapeutica-contenitiva sul lavoro di rete. Quando siamo confrontati a situazioni di questo tipo l’unica possibilità è cercare di collocare questi giovani nelle strutture della Svizzera interna . Si tratta di un’impresa difficile, sovente impossibile, a causa della lista d’attesa che spesso hanno queste strutture specializzate e inoltre per le difficoltà associate alla lingua e alla lontananza dei familiari, che dovrebbero essere coinvolti nel lavoro terapeutico». •Marco Galli, presidente della Commissione cantonale per la gioventù, Azione 2 febbraio ’05: «In Ticino manca ancora una visione articolata e interdisciplinare sulle mille implicazioni del disagio giovanile» e ciò rappresenta «l’anello più debole della lotta al disagio giovanile, rispetto ad altre parti della Svizzera. Ovvero la mancanza di una strategia di intervento, una politica giovanile vera e propria, che sappia mettere a fuoco soluzioni originali ed efficaci. Purtroppo con l’alibi della crisi economica, si preferisce lasciare che i casi diventino cronici». •Lo psichiatra dottor Silvano Testa, laRegione 21 maggio ‘05 nell’articolo dal titolo “Alla clinica psichiatrica in mancanza d’altro”: «Nei primi anni della mia vita professionale, dai primi anni ottanta alla seconda metà dei novanta, i minorenni ricoverati alla Cpc (Clinica psichiatrica cantonale) si potevano contare sulle dita di una mano. Certo, oggi assistiamo a un abbassamento dell’esordio di alcuni disturbi psichiatrici maggiori, ma di certo questi dati riflettono anche l’assenza di altre modalità di presa a carico di giovani in difficoltà che esprimono questo loro stato attraverso ad esempio l’aggressività, i vandalismi, la fuga da casa, ecc.». • Dal 2000 alla Clinica psichiatrica cantonale si registra una ventina di ricoveri all’anno di minorenni; dottor Silvano Testa, direttore medico della Clinica psichiatrica Cantonale, mattinata di lavoro organizzata dal Ps di Lugano, passo riportato dalla stampa: «Che senso ha ricoverare un ragazzino per una settimana in una clinica psichiatrica?». • Dottor Tazio Carlevaro, responsabile dell’Organizzazione sociopsichiatrica del Sopraceneri – il Caffè 23 maggio ’04: «Anche il numero delle ospedalizzazioni coatte è fuori norma rispetto al resto della Svizzera. A Mendrisio quasi il 60 per cento dei pazienti è formato da ricoveri coatti contro una media nazionale del 23 per cento». • Il Caffè 23 maggio ’04: «A preoccupare Tomamichel è la mancanza di una struttura sul territorio capace di seguire sino in fondo quei pazienti, soprattutto giovani, la cui malattia non è tale da giustificare un ricovero, ma che non può nemmeno essere gestita dalla famiglia». “Dieci turbolenti” Questo il testo dell’intervista rilasciata al settimanale della Tsi Falò dal capo dell’Ufficio del servizio sociale del Dss Roberto Sandrinelli: Conduttore: Roberto Sandrinelli, nel servizio abbiamo visto un ragazzo che esce da un’inchiesta e che ritroviamo in un albergo. Ma è questo il modo di trattare un ragazzo con questa problematica? Sandrinelli: Se potessimo rispondere in maniera definitiva a questo quesito, forse non saremmo qui a discutere. Il servizio che avete realizzato e per il quale mi complimento perché riflette una realtà che non possiamo fare finta non ci appartenga e non ci coinvolga, contiene una dimensione soggettiva – il ragazzo con la sua testimonianza – e una serie di considerazioni dei cosiddetti “addetti ai lavori”, il direttore, l’animatore, fino al magistrato dei minorenni. Per quanto mi riguarda è la prima volta che vedo questo servizio ma credo di poter condividere l’analisi che è fatta. Ho qualche interrogativo che per me resta aperto sulle conclusioni, in particolare su questa, così sembra, inevitabile struttura di accoglienza. Procediamo per gradi. Lei è d’accordo sul fatto che il problema esiste ed è grave, in sostanza che la delinquenza giovanile in Ticino stia crescendo e diventi un problema che preoccupa un po’ tutti? Il fenomeno della devianza e della delinquenza giovanile ha sempre preoccupato la nostra società. Che ci sia una sua recrudescenza, avrei qualche motivo per poterne discutere. Dovrebbe discutere con la magistrata dei minorenni che ha detto che il problema è sempre più grave quantitativamente ma soprattutto qualitativamente. Porto tre dati quantitativi per rendersi conto della realtà di cui parliamo. In Ticino risiedono circa 60 mila minorenni (dalla nascita ai 18 anni). Per questi minorenni complessivamente abbiamo 2 mila 300 misure di protezione: sono misure a loro favore, perché devono essere tutelati da qualcosa o da qualcuno. Abbiamo sentito nel servizio che ogni anno sono circa 1’100 - 1’200 i minori coinvolti, questo è già un dato che ci deve far riflettere: c’è il doppio dei ragazzi che dobbiamo proteggere da quelli che invece sono autori di reati. Poi sarebbe interessante andare in maniera più approfondita a vedere che tipo di reati compiono. La stragrande maggioranza, e il magistrato può facilmente confermarlo, sono comunque reati legati ai piccoli furtarelli, al viaggiare sull’autobus senza biglietto: non voglio banalizzare ma non vorrei nemmeno che si dicesse che ci sono 1’100 delinquenti che scorrazzano nel Cantone Ticino. Infatti nessuno lo dice. Però il comandante della polizia Romano Piazzini ha convocato una riunione il 22 novembre, alla quale ha partecipato anche lei, proprio su questo problema: insomma, il problema c’è. Il problema c’è e non si tratta assolutamente né di nasconderlo né di banalizzarlo. Se mi permette vorrei dare ancora due dati. Ci sono circa 300 minorenni che crescono lontano dalla loro famiglia: questo vuol dire che tutto il resto dei 60 mila minorenni cresce regolarmente con la propria famiglia. Crescere con la propria famiglia non vuol dire avere tutte le opportunità per un’adeguata crescita: conosciamo la fragilità dei minorenni, ma consociamo anche la fragilità delle famiglie che non sempre costituiscono una risorsa educativa e sociale. I minorenni che pongono problemi di gestione scolastica sono circa un centinaio all’anno. Un ultimo dato concernente i ragazzi che io definirei per intenderci “turbolenti”. In questo momento credo che se contiamo tutti i ragazzi “turbolenti” che stanno mettendo a dura prova autorità, servizi, famiglie, scuole e istituzioni non arriviamo a dieci. Comunque sono sempre troppi. Però c’è un problema: questi ragazzi “turbolenti” sono stati praticamente espulsi dalla normale vita scolastica, sono sulla soglia dell’ospedale psichiatrico o del carcere perché hanno comportamenti delinquenziali. In Ticino manca una struttura adatta per contenere questi ragazzi, per fermarli un attimo, prenderli in gestione continuativamente per tutta la giornata in un rapporto di uno a uno, cioè un ragazzo con una persona che si occupi di loro, perché forse finora non l’hanno avuta. Perché questa struttura non c’è, anche se sono vent’anni che se ne sta parlando? Certo è sicuramente questa la via. Io credo che per questi ragazzi che hanno già vissuto esperienze di collocamento in una struttura educativa o in una famiglia affidataria, la risposta dev’essere adeguata al bisogno e al disagio che esprimono in maniera molto soggettiva e individuale. Non sono convinto, non siamo convinti, che sia necessariamente una struttura: condivido l’idea che bisogna studiare dei progetti ad hoc legati alla singola soggettività. Lei parla ancora di progettare, ma è vent’anni che in Ticino se ne sta parlando. Siamo di fronte, come lei ha detto, ad un problema crescente, anche dieci o otto ragazzi turbolenti sono troppi, come facciamo ad occuparci di loro? Cosa proponiamo oggi a loro? Diciamo loro: non ci sono i soldi, arrangiatevi? Assolutamente no, è da vent’anni che si parla di strutture e non di strategie nuove. C’è chi vuole la struttura medicalizzata, chi la vuole con degli psichiatri, chi la vuole con gli agenti di polizia, chi vuole una struttura per sole ragazze, per soli ragazzi: insomma ognuno legittimamente esprime dal suo osservatorio e partendo dalla sua casistica l’esigenza di un tipo di struttura che corrisponde ai suoi bisogni E intanto mandiamo i ragazzi negli alberghi? Mandare dei ragazzi negli alberghi non è una soluzione efficace, ma anche il collocare un ragazzo presso una pensione, se fa parte di un progetto individualizzato come accennavamo prima, può essere una risposta adeguata. In questo senso è pronto un progetto elaborato dalla fondazione Amilcare, una fondazione che gestisce tre di queste strutture educative di accoglienza per adolescenti, che prenderà avvio all’inizio del 2006: non è una struttura ma un progetto articolato che farà capo per la residenzialità a delle famiglie, a delle pensioni, a posti mirati come dei piccoli appartamenti dove, proprio come suggeriva lei, ci saranno degli operatori che avranno rapporti uno a uno individuali e quotidiani con questi ragazzi che per intenderci abbiamo chiamato “turbolenti”.

Pubblicato il 

20.01.06

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