Quei minatori massacrati dalla polizia

“Chi sente e sa quanto questo cantone di lingua italiana sia parte vitale della Confederazione […] non mi contraddirà se affermo che il traforo del San Gottardo è tale fatto della nostra storia […] che, quanto agli effetti politici e alle conseguenze ultime, va messo in relazione col Patto che nel 1291 suggellò la prima alleanza fra gli avi e con l’Atto di mediazione che nel 1803 cancellò le disuguaglianze fra sudditi e padroni.” Con queste parole nel 1932 l’allora presidente della confederazione Giuseppe Motta valorizzava l’importante sacrificio effettuato dalle “Vittime del lavoro”, inaugurando l’omonima opera del Vela che ancora oggi è visibile ad Airolo. Cinquant’anni erano ormai passati dal quel lontano gennaio 1882, quando un treno per la prima volta attraversò il passaggio alpino arrancando al fischio del vapore.


Impresa titanica e avveniristica, il Gottardo era stato vinto. Politici e finanziatori potevano ormai decantarne la portata storica, celebrando lo sforzo comune della società tutta, che si apprestava a godere i frutti e i benefici dell’industrializzazione trionfante. La Svizzera aveva un nuovo simbolo.


Nel 1875 il budget previsto per la realizzazione dell’opera è ormai sforato del 50%, le pressioni imprenditoriali aumentano. La popolazione di Airolo e di Göschenen è più che raddoppiata: le centinaia di operai che vi risiedono, perlopiù italiani, sono preda della speculazione sugli affitti e sui generi alimentari. Vivono all’interno di tuguri sovraffollati, i ritmi di lavoro si aggravano e le condizioni di aerazione del tunnel sono insostenibili.
Il 27 luglio dello stesso anno la misura è colma. Un picchetto operaio blocca l’entrata nord degli scavi; il giorno seguente una folla che ha ormai raggiunto il migliaio di persone si raduna nel paese di Göschenen, esigendo un aumento salariale di un franco al giorno e migliori condizioni igieniche. Dal comune di Wassen e da Uri vengono inviati gendarmi riservisti ai quali è promesso un soldo di 10 franchi, equivalenti al salario di tre giorni per un minatore. La folla è caricata alla baionetta e infine le truppe aprono il fuoco. Quattro morti e ottanta feriti si aggiungono al bilancio delle “Vittime del lavoro”.


L’indomani il Journal de Genève noterà come «perlomeno questi stranieri hanno imparato a loro spese che la libertà svizzera non autorizza scenate simili».


Questa macchia indelebile nella storia dello Stato federale moderno, come l’ha definita Orazio Martinetti, rappresenta la prima repressione armata di un movimento operaio nel nostro Paese. Qualche mese dopo avrà luogo il primo sciopero della storia del Canton Ticino, quello dei tagliapietre impiegati nel tunnel.
Ora, nel momento in cui i discorsi sul raddoppio sono all’ordine del giorno, sarebbe probabilmente il caso di riscoprire questa e tante altre storie di sangue e miseria in gran parte ignorate dalla storiografia elvetica; perché chi non si ricorda del proprio passato è condannato a riviverlo.

Pubblicato il

29.01.2015 21:30
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