Si spalancano le porte di quattro tribunali per il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, unico imputato del procedimento Eternit bis, riguardante la morte di 258 persone ammazzate dall’amianto delle sue fabbriche Eternit in Italia. Non vi sarà dunque alcun maxiprocesso, come auspicava la Procura di Torino che indaga sulla vicenda da oltre quindici anni e che ora dovrà dunque condividere questo lavoro con gli uffici giudiziari di Vercelli, Reggio Emilia e Napoli: si occuperanno ciascuno dei singoli casi di decesso avvenuti nel proprio territorio di competenza. Così ha stabilito la settimana scorsa la Corte di Cassazione, dichiarando “inammissibile” il ricorso dei magistrati torinesi contro la decisione del giudice dell’udienza preliminare (gup) Federica Bompieri del novembre 2016 che aveva derubricato l’ipotesi di reato da omicidio volontario a omicidio colposo e di conseguenza prodotto la suddivisione del processo in quattro tronconi distinti. Per comprendere il significato preciso di questa sentenza, comunicata il 14 dicembre all’indomani di una breve udienza, bisognerà però attendere le motivazioni scritte: non è infatti chiaro se i giudici della suprema corte si sono limitati a stabilire che la gup non ha travalicato i suoi poteri (come asseriva invece la Procura di Torino) o se si sono spinti ad affermare che la stessa, negando la presenza del dolo, abbia valutato correttamente il livello di consapevolezza dell’imputato. Una questione non certo di dettaglio, perché potrebbe influenzare l’andamento di tutti e quattro i processi: anche se formalmente spetta alle singole procure (a parte quella di Torino per cui valgono le decisioni della gup Bompieri) valutare se richiedere un rinvio a giudizio di Schmidheiny per omicidio volontario oppure per omicidio colposo, è infatti chiaro che un eventuale pronunciamento preventivo da parte della Cassazione sul capo d’imputazione legherebbe un po’ le mani a giudici e magistrati. E se l’accusa si riducesse a quella di omicidio colposo (reato che si prescrive dopo 15 anni) per molti dei 258 morti ammazzati dall’amianto non vi sarebbe mai giustizia. Di qui la preoccupazione che si poteva leggere sui volti dei rappresentanti delle associazioni delle vittime, presenti a Roma per questo ennesimo appuntamento con quella giustizia che stanno rincorrendo da decenni. Questa volta non c’è stato nemmeno il tempo di sperare, perché già nella tarda mattinata di mercoledì 13 era filtrata la notizia che il Procuratore generale (Pg) della Cassazione aveva chiesto alla Corte di dichiarare inammissibile il ricorso della Procura. «Succede molto raramente che l’operato di un gup venga “assolto” con tanta convinzione da un Pg, ma è successo in questo caso. E ora è difficile che la Corte smentisca», aveva subito rilevato l’avvocato Marco Gatti, legale di parte civile, parlando con la stampa e con la nutrita delegazione dell’Afeva (Associazione famigliari e vittime dell’amianto) di Casale Monferrato, la “città martire” rappresentata nella capitale anche dalla sindaca Titti Palazzetti e da Fabio Lavagno, membro della Camera dei deputati. Nessuna sorpresa dunque quando giovedì è arrivata la sentenza. La situazione rimane così quella disposta dalla gup Bompieri: l’Eternit bis viene frazionato in quattro filoni, in funzione delle relative competenze territoriali. Ieri a Torino si è già tenuta la prima udienza del processo per le vittime dello stabilimento Eternit di Cavagnolo, in cui Schmidheiny è accusato di omicidio colposo plurimo aggravato, come stabilisce il dispositivo di rinvio a giudizio della Bompieri. A Napoli, dove il pubblico ministero chiede l’imputazione di omicidio doloso (cioè volontario) di 8 persone, si terrà l’udienza preliminare il 13 febbraio. Le procure di Reggio Emilia (competente per due casi legati allo stabilimento Eternit di Rubiera) e di Vercelli devono invece ancora cominciare a organizzarsi per procedere, visto che attendevano il verdetto della Cassazione. L’attenzione maggiore è naturalmente posta su Vercelli, che deve occuparsi del maggior numero di morti (240 su 258), causati dalle polveri disperse negli ambienti di vita e di lavoro dalla tristemente nota Eternit di Casale Monferrato. A sostenere l’accusa sarà quasi certamente il sostituto procuratore di Torino Gianfranco Colace, che verrebbe “applicato” alla Procura di Vercelli, portando con sé tanta competenza e memoria storica, visto che (insieme con Raffaele Guariniello, ora pensionato) ha condotto l’intera inchiesta ed è stato protagonista di tutti i processi sin qui celebrati. Ma non solo: sta continuando a indagare su altre decine di decessi legati all’amianto dell’Eternit, che andranno ad aggiungersi alle liste delle vittime dei quattro procedimenti e ad aprire nuovi processi. La giustizia italiana non molla insomma la presa su Schmidheiny, confermandosi un paese modello sul fronte della lotta alla criminalità d’impresa, come giustamente sottolinea lo stesso Raffaele Guariniello commentando la decisione della suprema corte: «Di recente – spiega – la Procura di Parigi ha chiesto di archiviare un procedimento contro Eternit. Qui da noi è cambiato il capo d’imputazione, ma almeno si faranno dei processi penali. Dico solo di essere positivi e consapevoli che siamo un Paese all’avanguardia. È vero, non c’è il dolo, ma nel processo Thyssen la colpa cosciente non ha di certo impedito di condannare a 9 anni e 8 mesi l’imputato principale». Pur non nascondendo che la decisione della Cassazione rappresenta un colpo alle speranze di giustizia dei famigliari delle vittime, anche Bruno Pesce, leader storico della lotta all’amianto a Casale Monferrato, prova a vedere il bicchiere mezzo pieno: «I processi comunque si faranno», nella «speranza che la sentenza della Cassazione non fissi dei paletti rispetto al dolo o alla colpa dell’imputato ma si limiti a considerazioni di carattere procedurale. Alle quattro Procure non deve giungere il messaggio che “comunque vada non c’è dolo”. È una questione da valutare nel processo e non con una decisione presa in camera di consiglio dalla Cassazione, altrimenti andiamo a stravolgere ulteriormente un sistema giudiziario che già così tutela più gli imputati che le vittime. E sarebbe davvero molto grave». «In ogni caso, al di là del capo d’imputazione, è importantissimo che si giunga a una condanna congrua, che lo Stato, di fronte a comportamenti come quello tenuto da Schmidheiny, infligga una sanzione, dica che così non si fa. Altrimenti le vittime non avranno mai giustizia, anche se ricevessero un milione di euro a testa», conclude Pesce.
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