Quanto inverno in una guerra

Hiver, ultima pièce di Evguéni Grichkovets è sicuramente un’allusione a certi avvenimenti storici e alla sua esperienza militare al servizio della flotta del Pacifico. Due anni passati in Estremo Oriente durante i quali ha «flirtato» con gli stessi mali dei suoi personaggi. Sono due: il Primo e il Secondo soldato, imbarcati in un’operazione di sabotaggio di cui ignorano tutto, la sua ragione e il suo scopo. La situazione ellittica, l’anonimato dei protagonisti spinge a interrogarsi: si tratta di un banale esercizio o di un’azione militare reale? Intrappolati nel buio della foresta, in un’attesa assurda fatta di schermaglie ricorrenti con la perdita di riferimenti spazio-temporali i due personaggi ci ricordano Aspettando Godot di S. Beckett. A partire da Beckett Grichkovets disloca lo schema narrativo lineare per fare coabitare più registri. Così la verosimiglianza della missione militare si contrappone a un universo onirico ispirato alla mitologia russa infantile. Il freddo lancinante, la noia, la fame, i divieti e le privazioni assalgono lo spirito dei due soldati fino a che una dolce confusione, mista tra sogno e realtà, s’impadronisce di loro. L’autore procede all’incastro di più dimensioni: fantastica, realismo dell’azione, malinconia legata ai ricordi, magia delle veglie di Natale. Grichkovets vuole celebrare il potere dell’immaginario, questo potere del bambino che si estrae dal suo presente quando più nulla si muove, tutti i sensi sono aggrediti e la percezione diventa ambigua. Ma quando Lei spunta, la fata delle Nevi, personaggio evanescente che indossa, nei racconti russi, il ruolo di assistente di Nonno Gel, l’equivalente del nostro Babbo Natale, tutto cambia. Direttamente portata dalle chimere infantili, è Lei che fa traballare le sorti dei due soldati in una dimensione favolosa, insolita e nostalgica. Imbarcati in una guerra di uomini, i due soldati si lasciano trasportare dall’irrazionale. Le situazioni estreme fanno nascere, a volte, i sogni più vagabondi... Evguéni Grichkovets, nato nel 1966 a Kémérovo, nella Russia profonda, appartiene alla generazione emergente del teatro russo della post perestroika. Studente di filosofia, fonda e dirige dal 1990 la compagnia Loge dove sperimenta l’improvvisazione collettiva. Nel 1999 decide di stabilirsi a Kaliningrad e lascia la compagnia. È all’interno del foyer del Teatro dell’Armata Rossa che presenta, da solo sul palcoscenico, la sua perfomance: Come ho mangiato un cane. La pratica del monologo, l’interpretazione dei suoi testi e il ricorso a un’improvvisazione più o meno libera spinge Grichkovets a sviluppare un nuovo genere di narrazione basato sull’associazione d’idee e la rottura della logica che lo porterà a vincere svariati premi di Festival Internazionali. Lo spettacolo sarà rappresentato fino al 2 giugno al Théâtre St-Gervais di Genève, tel. 022 9082020.

Pubblicato il

31.05.2002 14:30
Walter Bortolotti