Quanti sono i volti del dolore

«Restavo solo per non impazzire, per non diventare un malvivente, per non fare il trafficante, per diventare uno svizzero come tanti altri. Dopo tutti questi sforzi, di certo qualcuno si sarebbe accorto che ero una persona idonea a restare in questo paese. Invece non ho notato nessuno, e la Svizzera mi sta cacciando via. Mi hanno dato tre mesi di tempo e poi smammare, dove cavolo ti pare.» È uno dei tanti pensieri che quotidianamente martellano la mente di Ilìr Beiko, uno dei protagonisti dell’ultimo romanzo ambientato a Lugano della scrittrice, di origine albanese, Elvira Dones. Una storia che ha dato corpo e voce a chi costretto a fuggire dal proprio paese d’origine – per disperazione, fame o persecuzione – ci abita accanto, si mimetizza nell’anonimato della massa degli stranieri non desiderati. Una storia che racconta uno dei tanti volti del dolore di un popolo, quello albanese, di ciò che rimane dalle macerie di una dittatura che lo ha soffocato per quasi cinquant’anni. Secondo di quella che l’autrice ha chiamato la “trilogia del dolore”, il romanzo segue a “Sole bruciato”, uno straordinario, cupo quanto poetico affresco sul calvario della tratta delle ragazze albanesi costrette con la violenza al mercato della prostituzione italiana. In attesa di essere tradotta in italiano resta la terza opera della trilogia, “Dopo il silenzio” con cui l’autrice ricompone il cerchio del dolore. Giornalista e scrittrice, Elvira Dones, dopo aver vissuto in Ticino dal 1988 fino al luglio del 2004 si è stabilita con la sua famiglia a Washington. L’abbiamo raggiunta telefonicamente per parlare dei suoi romanzi, del suo paese ma anche del suo soggiorno americano. “Sole bruciato” e “Bianco giorno offeso”, due porte spalancate: l’una sulla virata impazzita di un riscatto dalla miseria che percorre la via della criminalità organizzata, dell’aberrazione della tratta delle albanesi; l’altra sul tentativo di un ragazzo albanese, Ilìr, di ricostituirsi una vita in un paese straniero, la Svizzera, che dopo averlo sfruttato, lo ricaccia tra le macerie di un passato che ha tentato disperatamente di fuggire. Vi è un filo conduttore tra queste due storie? Il tutto è nato da una mia grande ambizione: scrivere “Sole bruciato” non come un’inchiesta giornalistica bensì come un romanzo, sebbene intessuto di una lunga ed approfondita ricerca giornalistica. Ma dare numeri e statistiche lo fanno tutti mentre io volevo che dal mio lavoro scaturisse un romanzo corale, che desse un volto, un nome a quelle anonime statistiche. Ne è emerso con forza il dolore, il male: da qui l’idea di una trilogia che mi desse l’opportunità di descriverli nelle loro diverse sfaccettature e nelle loro ramificazioni. Il mio desiderio di descrivere il dolore e il male è ciò che lega i due romanzi, la capacità o l’incapacità di gestirli. In “Sole Bruciato” lei racconta di «ragazze approdate in Italia (…) che vengono a cercare i sogni e trovano lo stupro, la morte, che vedono la scarnificazione della loro anima». Quanto le è costato scrivere un libro così crudo, doloroso? È stato liberatorio scriverlo, l’atto finale di una ricerca durata quasi due anni. Allora stavo cercando di prendere vigliaccamente le distanze da tutto ciò che rappresentava il dolore balcanico. Ero nella posizione in cui si trova Ilìr Beiko (il protagonista albanese di “Bianco giorno offeso”, ndr): ne avevo visto e vissuto abbastanza e volevo scrivere una letteratura minimalista, guidata più che altro dal piacere della scrittura. Invece, un giorno mi riscopro a ritagliare articoli di giornali italiani – tra il 92 e il 94 – pieni zeppi notizie di cronaca nera sulla criminalità albanese, esplosa ad una tale velocità da cogliere di sorpresa la società e le autorità italiane che non sapevano come farvi fronte. Sentivo che per rispetto del mio paese, del male e del dolore che da esso fuoriusciva, dovevo informarmi scrupolosamente e minuziosamente prima di accingermi a scrivere su un tema così difficile. Ne è scaturito comunque un affresco di una storia recente dell’Albania. Che poi può essere la storia di altri paesi, quali quelli dell’ex Unione sovietica in genere, è la storia dei sogni sbriciolati di noi ex-comunisti, prigionieri del Gulag comunista, sparsi per le strade d’Europa. Quando ho cominciato a scrivere “Sole bruciato” ho vissuto un momento schizofrenico, c’erano i bombardamenti delle forze Nato sul Kosovo ed io mi sono tuffata nella storia quasi in apnea: pur di non stare attaccata alla Cnn tutto il giorno, pur di non sentire i miei amici kosovari angosciati per la morte dei loro cari, per loro stessi che stavano fuggendo, ho preferito scrivere a dirotto. È stata una forma di catarsi per me. Un processo catartico sul filo del paradosso: sfuggire al dolore parlando di sofferenze e violenze… Sì, era un combattere il dolore col dolore. Ma quel romanzo era talmente maturato dentro che l’ho scritto con serenità. «Laggiù, pensò Delina. Perché era andata così? (…)», si chiede una delle protagoniste di “Sole bruciato”. Se lo è chiesto anche lei? Me lo sono chiesto come tanti altri albanesi. Io sono stata tra i primi ad uscire dall’Albania, prima che arrivassero le ondate dei miei conterranei, prima della caduta del Muro di Berlino. Sentivo un assoluto bisogno di fuga, di tagliare i ponti con la mia terra, di sradicarmi da quel male che si era prodotto in quasi cinque decenni di dittatura in cui ero cresciuta per 28 anni. Volevo la mia libertà tutta quanta e subito. Come Ilìr, il protagonista albanese di “Bianco giorno offeso” che si chiede: «Chi l’aveva detto che era necessario vivere con i ricordi, i dolori, le gioie e altre cazzate?» Esatto. I Balcani sono terre straordinarie, intense nel bene e nel male. E il suo “sole”, la sua essenza brucia all’eccesso, così tanto che uno arriva al punto di non farcela più, di voler dimenticare. Decide allora di adottare – per un periodo o per sempre – il modus vivendi di un altro popolo, della terra in cui si rifugia, alla ricerca disperata di quella “normalità” che gli era stata negata fino a quel momento. Molti albanesi hanno intrapreso questa via, la via dell’oblio, hanno voluto dimenticare perché la loro terra li ha molto feriti. Il suo romanzo “Sole bruciato” rifugge da contrapposizioni di tipo manicheo: i cattivi sono solo cattivi e i buoni solo buoni. Lei descrive personaggi della mala come Bajram come carnefici e benefattori allo stesso tempo: ma non è un paradosso? È una sacrosanta verità. Circa quindici giorni fa è stato inaugurato a Washington il museo della storia dei pellerossa, un riconoscimento che è un mea culpa, arrivato con un gravissimo ritardo, per la terribile decimazione dei Nativi d’America avvenuta per mano degli anglosassoni. Nessuna nazione può dirsi immacolata. Ed in questo senso Bajram, l’aguzzino delle ragazze schiavizzate, è comunque cinicamente pragmatico, con un suo senso “estetico”: ed è questo l’elemento che inquieta di più in personaggi come lui. Come molti “signori” della droga, della prostituzione e del traffico umano in Albania si stanno ripulendo, si stanno dando una patina di rispettabilità. Io aborro tutto ciò con cui hanno a che fare questi uomini, ma d’altra parte riconosco che il male non è mai così netto. Altri dolori, altre solitudini. Con “Bianco giorno offeso” lei narra la storia di una profonda amicizia fra due ragazzi, un profugo albanese e un luganese: cosa accomuna il dolore di Ilìr a quello di Max? Li accomuna un dialogo sordo. Devo dire che mi sono divertita molto a descrivere questi due uomini, li ho amati molto. Come straniera che ha lasciato la propria terra, mi sento e continuerò a sentirmi straniera ovunque, anche nella stessa Albania. Vedo e osservo quest’umanità, gli stranieri, quelli che io chiamo l’esercito dei fantasmi, delle ombre a cui non facciamo mai una domanda. Li sfioriamo ma sappiamo poco o niente di loro. Viviamo nella totale ignoranza di chi ci sta vicino. «Cosa puoi capire tu del mio paese? Nessuno di voi capisce. Albanese uguale trafficante di droga uguale puttaniere e basta». Dice Ilìr a Max (in “Bianco giorno offeso”) che gli chiede del suo paese. I due ragazzi sono dentro a un gioco in cui desiderano scambiarsi i ruoli: Max, ticinese, vorrebbe avere l’intensità della vita vissuta da Ilìr mentre quest’ultimo è saturo di questo vivere sempre in emergenza e desidera soltanto vivere normalmente. Vedo una grandissima sordità nel mondo d’oggi, ci parliamo addosso ma è raro che riusciamo a trovare parole che facciano breccia negli altri. In “Bianco giorno offeso” lei mette a fuoco la paralizzante condizione di chi si ritrova sospeso in attesa di un permesso di soggiorno e deve tirare a campà nella diffidenza e nell’ostilità. Ed è quello che uccide di più, quel tipo di diffidenza che vedi e senti sulla tua pelle anche nelle cose più impalbabili. C’è una sorta di ambivalenza nei confronti degli stranieri: da una parte li richiediamo perché svolgono i lavori più umili e ci fanno sentire migliori ma dall’altra vorremmo che non esistessero. E lei come ha vissuto la sua condizione di emigrata? Per tanti anni – prima che venissero tradotti in italiano i miei romanzi e venissi riconosciuta come scrittrice – mi è stata rinfacciata come una colpa l’essere straniera, il che mi è pesato non poco. Credo che sullo straniero si riversino tutte le proprie paure, si va a votare la destra, moderata o estrema che sia, perché ha trovato dei capri espiatori negli stranieri al disagio del paese e ci si benda gli occhi di fronte al fatto che quei partiti hanno contribuito a crearlo il disagio, l’impoverimento. Ilìr sceglie di stare da solo, sfugge i suoi connazionali, nel tentativo di diventare un vero svizzero, per non cadere nel vortice della delinquenza. La solitudine è dunque lo scotto da pagare per una vera integrazione, per mimetizzarsi? Lo scotto lo paghiamo tutti, stranieri e non. La solitudine è un’altra costante dell’essere umano, che ritroviamo nel profondo di ognuno di noi ed è su questa solitudine che cerchiamo di costruire una solidità della persona. Non tutti riescono poi a gestire la propria solitudine. Per molti stranieri che arrivano in un nuovo paese c’è la paura dell’ignoto tale che, per difesa, si chiudono nella cerchia dei compatrioti, continuano a mangiare il proprio cibo e a perpetrare le proprie usanze. Come vede il “gioco” ha sempre due facce, ogni cosa la puoi rovesciare e constatare che anche l’altra parte è altrettanto vera quanto la prima. La realtà non è mai a senso unico. Lei si trova negli Usa: che riflessioni ha maturato riguardo, ad esempio, alla cultura del sospetto che si va sviluppando nei confronti dei musulmani? Da anni vengo spesso in America, leggo un certo tipo di letteratura di nicchia americana e sono sempre stata molto attenta e informata su quanto accade nel paese. Vivere però l’America dal suo interno è molto diverso. Penso che oggi sia diventato stupidamente di moda essere antiamericani ed io che per natura sono una che va controcorrente provo un piacere “perverso” al pensare di essermi trasferita qui proprio in questo momento. Ebbene io amo andare in un posto proprio quando meno è popolare. In realtà provo un grande amore per questa terra, pur essendo molto critica nei suoi confronti così come lo sono verso la mia straordinaria e madre terra che è l’Albania. Verso chi o cosa si focalizzano le sue critiche? Verso la politica americana che da anni sta producendo effetti nefasti per il mondo. Temo e combatto il concetto dell’impero, della superpotenza che non è altro che una forma mimetizzata di totalitarismo. Non dovremmo però confondere tutto il popolo americano con l’amministrazione Bush, gli americani non sono gradassi, gradassa è la politica che la leadership al governo propugna. Questo è un momento particolarmente difficile per l’America e per tutto il mondo occidentale, per le nuove dinamiche venutesi a creare; proprio per questo motivo è bello venire qui a scrivere di questo paese, dal suo interno, perché ci sono storie da raccontare non per una ma per tre vite. ************* Durazzo-Ticino-Washington Nata nel 1960 a Durazzo (Albania), Elvira Dones si è laureata in letteratura albanese e inglese all’Università di Tirana. A 16 anni ha cominciato a lavorare per la televisione albanese. Dal 1988 al luglio del 2004 ha vissuto a Lugano, quindi si è trasferita a Washington. Moglie di un documentarista della Tsi, ha una figlia di 12 anni. Scrive in albanese ma dei tre romanzi tradotti in italiano, l’ultimo “Bianco giorno offeso” (interlinea edizioni) è stato tradotto personalmente dall’autrice. Sempre in edizione italiana sono usciti “Senza bagagli” (Besa editrice) e “Sole bruciato” (Feltrinelli) di cui l’autrice ha curato l’adattamento per lo schermo per il regista albanese Fatmir Koçi. Dello stesso romanzo ha scritto la sceneggiatura anche in italiano per il regista Marco Risi che ha in serbo di girare un film. In attesa di traduzione il terzo romanzo della trilogia: “Dopo il silenzio”. Due sono i documentari realizzati per la Televisione della Svizzera italiana, il primo “Cercando Brunilda” insieme al regista Mohammed Soudani e il secondo “Ingujar” (Inchiodato) di cui è prevista la diffusione in “Storie” il 21 novembre 2004. Da tempo, inoltre, collabora con due giornali albanesi.

Pubblicato il

22.10.2004 03:30
Maria Pirisi