Un’isola solitaria in mezzo all’Europa, la Svizzera. Non proprio. Senza porti sul mare, è riuscita a sbarcare ovunque e a partecipare, dietro alle quinte, a molte vicende della storia internazionale. E pur non avendo colonie, il nostro paese ha guadagnato anche dal modello commerciale, e criminale, legato alla tratta degli schiavi. L’implicazione di imprenditori elvetici in questo traffico sta emergendo ora nel dibattito pubblico e per lo storico Hans Fässler si tratta di un capitolo che non solo va riconosciuto, ma anche “riparato”. Lo studioso rompe un tabù e confronta il crimine della schiavitù con quello del nazismo: «Per la letteratura storica è oggi inevitabile». Gli schiavi come gli ebrei nei lager nazisti? «L’Olocausto conserva una sua unicità storica. Ci sono però delle radici comuni, troviamo dei parallelismi, ma anche delle differenze fra l’organizzazione dei due sistemi». Lo storico Hans Fässler, che ha dedicato gli ultimi vent’anni della sua ricerca al rapporto fra Svizzera e colonialismo, sa che confrontare l’Olocausto con lo schiavismo è un argomento destinato ad accendere il dibattito. Ed è pronto a discuterne: «Bisogna avere il coraggio di parlare apertamente di che cosa rappresentò il lavoro degli schiavi. Confrontare non significa equiparare, ma sottolineare lo scandalo derivante dalla mancata riparazione dei crimini perpetrati contro le persone attraverso lo schiavismo». Ma che cosa centriamo noi, la Svizzera, con il colonialismo? Non abbiamo mica fondato la Compagnia delle Indie, né tantomeno siamo stati una potenza coloniale! Eppure, un legame c’è. La storia oggi ci dice che imprenditori e mercenari confederati hanno investito in società coloniali, praticato la tratta degli schiavi, partecipato a spedizioni e alla repressione delle rivolte. Lo sappiamo: non è una bella storia, ma forse «il 29 novembre si vedrà che è cambiata». Hans Fässler, nato nel 1954 a San Gallo, è uno storico svizzero molto conosciuto anche per impegno politico e militanza: ex deputato socialista, professore e cabarettista, è un uomo che le vicende dell’agire umano non solo le studia dal punto di vista scientifico, ma le “canta” pure. Già cantautore politico, da sempre i risultati delle sue ricerche sono confluite in iniziative concrete, che hanno avuto il merito di lanciare il dibattito pubblico. Hans Fässler, una società, quella svizzera, che senza porti marini ha un passato coloniale: come è potuto concretamente accadere? La società svizzera era strettamente legata alle vicende europee fin dal XVI secolo. E così quando l’Europa si è preposta l’obiettivo di soggiogare, colonizzare e sfruttare il cosiddetto “Nuovo Mondo” attraverso lo sfruttamento di schiavi indigeni e africani, anche noi, in un certo senso, eravamo semplicemente lì. Come era organizzato il commercio svizzero basato sul colonialismo? Quali settori economici sono stati coinvolti? I rapporti più importanti hanno riguardato i servizi militari, il commercio in generale e l’industria tessile. I mercenari svizzeri erano dispiegati principalmente in Francia e Olanda, e spesso una carriera militare portava a posizioni nell’amministrazione coloniale o alla proprietà di piantagioni e schiavi. Gli scambi nel contesto coloniale si sono tradotti nella partecipazione alla produzione di merci e al relativo traffico dei prodotti coloniali derivanti dal commercio triangolare. Cotone, tabacco, zucchero, cacao sono i beni che hanno permesso attraverso politiche colonialiste di accumulare immensi patrimoni sulla pelle degli schiavi. Si è trattato di un affare privato o la Confederazione ha favorito il colonialismo attraverso leggi? La Svizzera come Stato esiste solo dal 1848, quindi la partecipazione al colonialismo e alla schiavitù è stata un affare privato. Commercianti, banchieri mercantili, imprese familiari, mercenari da e sul territorio della Svizzera moderna hanno guadagnato da questo commercio. A ciò si aggiungono anche le attività coloniali statali o semistatali dei singoli cantoni della vecchia Confederazione (Berna, Zurigo e Soletta), ovvero i precursori della Svizzera moderna. Quali sono state le città più coinvolte e perché? La Svizzera italiana ha avuto una partecipazione? La percentuale di attività coloniali è più alta nelle città protestanti: Zurigo, Basilea, Berna, San Gallo, Neuchâtel, Ginevra, Sciaffusa, ma si trovano sorprese anche nelle zone rurali. Ho creato un archivio digitale (https://louverture.ch/caricom-compilation), dove documento tutti i casi di coinvolgimento svizzero o federale. Finora ho trovato un solo rapporto con il Canton Ticino. All’inizio del XIX secolo un luganese, un certo Frédéric, era attivo nella colonia olandese di Suriname con il grado di capitano. Non ho alcuna spiegazione per la quasi totale assenza del cantone del sud, al massimo posso formulare un’ipotesi. Il cattolico Ticino era orientato per i propri affari principalmente verso la Lombardia, che non perseguiva una politica coloniale. Che portata ha avuto il commercio a livello nazionale e quante aziende sono state interessate? Non sono in grado di dare numeri precisi, perché si era creata una rete quasi inestricabile di decine di individui riconducibili a imprese familiari e aziende. Per quanto riguarda il volume totale della partecipazione, ho cercato di fare un bilancio e sono arrivato a stimare una quota del 2-3 % di partecipazione svizzera sul totale del commercio sviluppato dalla schiavitù transatlantica. Può sembrare un numero piccolo, ma se lo si converte nella percentuale pro capite della popolazione, la “Svizzera” è stata più coinvolta della potenza coloniale francese. Una realtà che è rimasta a lungo sconosciuta: qual è il motivo? E come sta reagendo la società svizzera di fronte a questo confronto? Non c’è stato un grande interesse perché il mondo della Guerra Fredda non era interessato alla devastante eredità lasciata della schiavitù e dal colonialismo e le voci del “Terzo Mondo” sono state pressoché ignorate. La situazione è cambiata alla fine degli anni ‘90 quando il tema ha iniziato ad avere più spazio. La reazione pubblica è sempre oscillata tra rifiuto, incredulità e curiosità. Con il recente assassinio di George Floyd negli Stati Uniti, e l’avanzata del movimento antirazzista “Black Lives Matter”, il dibattito è stato portato a un nuovo livello di consapevolezza. Che tipo di riconoscimento manca ancora nel dibattito sul colonialismo? Il colonialismo non è ancora stato dichiarato un crimine contro l’umanità, ma solo la schiavitù e la tratta degli schiavi lo sono considerati. È incomprensibile, e pure non più accettabile, che non siano ancora stati richiesti e pagati risarcimenti alle vittime della tratta degli schiavi, come invece è avvenuto nel caso dell’Olocausto. Il diritto internazionale sulla responsabilità degli Stati stabilisce chiaramente che cosa si deve fare in questi casi. Nella pratica che cosa dovrebbe fare la Svizzera per riparare a questo capitolo della sua storia? La Caricom (Reparations Commission), una commissione di cui fanno parte quattordici Stati caraibici, ha chiesto che anche la Svizzera venga aggiunta alla lista degli Stati (oltre alle “classiche” potenze coloniali europee) che devono versare risarcimenti per il crimine della schiavitù. Il nostro paese dovrebbe quindi istituire una commissione congiunta di esperti (Caricom/Svizzera) per valutare l’entità dei profitti svizzeri derivanti dallo schiavismo e creare un “fondo di risarcimento” con parecchi miliardi di franchi svizzeri... L’industria del cioccolato, simbolo della Svizzera, importa cacao da paesi dove lo sfruttamento è ancora presente... Fin dalle sue origini, la storia del cioccolato è stata strettamente legata allo sfruttamento, all’ingiustizia e alla schiavitù. E poiché il cioccolato nella Svizzera nazionale-conservatrice è carico di un particolare simbolismo (qualità! Mucche! Montagne! Toblerone! Cervino!), esistono forme di repressione particolarmente persistenti. Ho criticato pubblicamente il fatto che il nuovo museo Home of Chocolate di Lindt & Sprüngli a Kilchberg, nel canton Zurigo, inaugurato di recente, ignori la schiavitù nella sua rappresentazione della storia sul cioccolato. L’amministratore delegato Ernst Tanner ha sostenuto che il museo si è “deliberatamente concentrato sulle pietre miliari di 5’000 anni di storia culturale del cioccolato, che sono facili da capire per giovani e meno giovani, così come per gli ospiti di tutto il mondo, e possono essere presentate di conseguenza nello spazio dato”. Inoltre, “non vi è alcuna pretesa di completezza, ma piuttosto di un entusiasmante trasferimento interattivo di conoscenze”. In una lettera aperta ho cercato di far capire al Re del cioccolato quanto sia orribile la sua argomentazione. Gli ho chiesto di immaginare se l’azienda tedesca Siemens 2022, in occasione del suo 175° anniversario, avesse presentato la storia dell’azienda nella sua sede di Monaco, senza menzionare l’utilizzo di 300’000 prigionieri provenienti dai campi di concentramento e destinati ai lavori forzati. Ho chiesto a Tanner come avrebbe reagito il pubblico, se il Ceo della Siemens avesse risposto alle critiche di questa omissione nel modo seguente: “Nella mostra ci siamo concentrati sui capisaldi di 175 anni di storia industriale, che sono comprensibili per giovani e anziani e per ospiti provenienti da tutto il mondo e che possono essere presentati in questo spazio. Non abbiamo alcuna pretesa di completezza, ma piuttosto di un entusiasmante trasferimento interattivo di conoscenze”… Finora non ho ricevuto risposta. Le strategie delle multinazionali possono essere definite come neocolonialismo? Sì, l’attività di molte aziende può certamente essere descritta come neocolonialismo. Ciò vale in particolare per il settore finanziario e delle materie prime in Svizzera. Fu il presidente ghanese Nkrumah a coniare il termine nel 1963 per il preambolo della carta dell’Oua (Organizzazione dell’unità africana) dopo la grande spinta alla decolonizzazione africana. Con questo intendeva la continuazione dello sfruttamento del Terzo Mondo da parte degli Stati e delle corporazioni del Primo Mondo dopo la dissoluzione degli imperi coloniali. Ma molto è cambiato, come dimostrano la storia dell’Iniziativa sulle multinazionali responsabili in votazione il prossimo 29 novembre: sempre più spesso i consumatori si impegnano con successo per esercitare pressioni sui principali attori in materia di diritti umani e di standard ambientali. Il testo integrale dell’intervista a Hans Fässler è pubblicato sulla versione cartacea di area. |