Quando la lotta soffiava da Sud

Non succede spesso che in un lavoro sul movimento operaio svizzero vi sia la presenza di un nutrito stuolo di contributi dal Ticino. La tradizione storiografica nazionale in generale ha considerato "Svizzera" il solo nord-est, da Zurigo a San Gallo. Questo modo di fare è legato alla disponibilità di fonti e alla lingua delle fonti stesse, ma anche alle conoscenze dei ricercatori, che di rado si estendono a tutte le regioni linguistiche nazionali. Dipende pure da una colpevole assenza degli storici ticinesi per i quali risulta sovente troppo impegnativo mantenere i contatti e partecipare a riunioni dove si parla solo tedesco a Zurigo o Berna. Il risultato è che si finisce per perdere la possibilità di vedere la realtà nella sua complessità e sotto le differenti sfaccettature dettate dalle visioni regionali.
Facciamo un esempio: se parliamo del pericolo nazifascista, il Ticino lo vive direttamente dal 1921, con la costituzione a Lugano del primo Fascio di combattimento all'estero. Per la Turgovia, per Arbon e le sue industrie, diventa chiaro solo nel gennaio 1933, al momento della ascesa di Hitler al potere in Germania. La Fondazione Pellegrini-Canevascini cerca perciò sempre di essere presente nei diversi progetti che si elaborano Oltralpe. È vero che veniamo coinvolti spesso soltanto quando il lavoro è già in fase avanzata, ma almeno segnaliamo ogni volta l'esistenza di una storia del movimento operaio nella Svizzera italiana, con temi e ritmi suoi, utile complemento di quelle delle regioni alemanniche e romande.
Nel caso specifico del libro per il 125° dell'Uss (*) abbiamo scelto alcuni temi coll'intento di affrontare problemi generali da un angolo di visione particolare. Teniamo presente questo filo conduttore ed entriamo nel libro.
Orazio Martinetti torna sui suoi temi di gioventù parlando del traforo ferroviario del San Gottardo, dello sciopero e dell'intervento dell'esercito a Göschenen nel 1875. Nel suo caso l'importanza del cantiere e degli interessi in gioco, finanziari e politici, porta direttamente alla ribalta una regione delle Alpi di solito ai margini dei fenomeni economici europei. Si parte comunque già dal concetto di Svizzera italiana che comprende l'immigrazione dalla Penisola, non da una scelta puramente territoriale.
Pasquale Genasci parla del lavoro minorile nelle filande. Il nostro Cantone ottiene infatti una deroga alla legge sulle fabbriche che permette alle aziende ticinesi di continuare ad impiegare giovanissimi operai ed operaie fino alla fine del XIX secolo. I padroni e i loro rappresentanti politici difesero questa eccezione fino all'ultimo, spalleggiati da molte famiglie contadine che mandavano in fabbrica i loro rampolli; la paventata chiusura degli impianti di fronte alla concorrenza d'oltre confine faceva agio sui timori per la salute della prole. Le autorità federali non cedettero e fu davvero la fine di un settore. In questo caso è utile seguire le traversie di un tipo di industria che deve tener in conto l'esistenza di leggi diverse a poche decine di chilometri di distanza, che deve insomma fare i conti con la frontiera. La fragile struttura economica ticinese non è in grado di imporsi sulla concorrenza se non con le armi dei poveri, il basso costo della manodopera e la sua maggiore esposizione allo sfruttamento.
All'altro capo dello spettro non molto ampio dell'industrializzazione cantonale all'inizio del XX secolo ci sono le cave di granito e il movimento sindacale degli scalpellini del Ticino e di Uri. Di questo parla Renato Simoni nel suo breve saggio, ricco, nell'edizione tedesca, di belle fotografie a piena pagina. Sono lotte, quelle degli italiani che costituiscono la quasi totalità degli attivi salariati nel settore, che modificano l'immagine di questi immigrati, descritti e trattati sovente come crumiri disposti a lavorare a prezzi inferiori a quelli imposti dalla tariffa, come massa non organizzata e dunque priva della necessaria coscienza del proprio stato e del valore della solidarietà. In questo caso si battono invece persino contro il capitale venuto da oltre Gottardo e cercano forme di rivendicazione che li portano a rivendicare perfino forme di cogestione delle cave e dei consorzi del granito.
La storia locale trionfa poi con il caso degli scioperi di Lugano del 1918. Qui si tratta di capire come mai lo sciopero generale locale del luglio, partito come movimento spontaneo, ripreso e diretto dalla Camera del Lavoro con la collaborazione di alcuni dirigenti delle Federazioni nazionali sia riuscito, abbia ricevuto l'appoggio popolare ed abbia ottenuto, sul breve e medio periodo, sostanziali progressi nei salari, nelle condizioni di lavoro ma anche nel riconoscimento del ruolo sindacale. Questi successi, vanificati poi dalla crisi di riconversione dei primi anni Venti, vengono contrapposti da Gabriele Rossi al sostanziale fallimento, a Lugano, dello sciopero generale nazionale del novembre. Le ragioni sono diverse; colpisce in particolare il fatto che la borghesia poté sfruttare il particolare momento politico europeo, accusando i dirigenti operai di fare il gioco del Reich tedesco, come già aveva fatto, secondo loro, Lenin ritirando la Russia dal conflitto mondiale. I dirigenti locali, ben consci del rischio, si erano più volte fatti da parte, segnalando in questo modo la loro opposizione. Questa esperienza ripropone la discussione sul bisogno di avere un polo sindacale locale in grado di sentire subito gli umori della piazza e reagire di conseguenza: territorialità delle Camere del Lavoro contro centralismo delle Federazioni di mestiere.
Una delle conseguenze dello sciopero nazionale del 1918 è la costituzione dell'Organizzazione cristiano-sociale all'inizio dell'anno seguente, nell'intento di far trionfare una diversa concezione dei rapporti tra datori di lavoro e lavoratori, improntata agli interessi comuni e scevra di visioni legate alla lotta di classe e allo sciopero. Se per i primi dieci anni il sindacato di matrice cattolica non riuscì a prendere piede, dal 1929 divenne progressivamente l'altra metà del movimento operaio sotto la guida, protrattasi per oltre 40 anni, di monsignor Del Pietro. Su questa figura e su quella di Domenico Visani, segretario de facto della Camera del Lavoro per un periodo altrettanto lungo e tale da trasformarlo nel "padre del sindacalismo ticinese" si impernia il contributo di Nelly Valsangiacomo. In che misura le persone determinano l'attività delle istituzioni e che cosa cambia quando, come solo in Ticino succede, i sindacati cattolici e quelli di matrice socialista sono di forza equivalente?
Non ci sono testi sul Ticino nei capitoli 5 e 6, dedicati all'alta cogiuntura e alle nuove crisi. Vi compaiono tuttavia figure di immigrati italiani e dirigenti sindacali ticinesi quali Vasco Pedrina. Il tempo necessario per espletare quel minimo di ricerca che è necessario per non rischiare di raccontare sciocchezze ci ha impedito di proporre tematiche anche per questi periodi. Lo abbiamo detto, siamo stati coinvolti tardi. Abbiamo tuttavia fornito due delle brevi biografie che costituiscono l'introduzione e la conclusione del libro. Anche in questo caso sono stati forniti aspetti particolari, come quello della migrazione interna attraverso il fenomeno dei convitti e la descrizione di quel momento importante che fu la prima convenzione collettiva nel settore ospedaliero cantonale.
Ora speriamo che il libro, pur in assenza di una traduzione nella lingua di Dante, circoli nella Svizzera italiana e trovi commenti favorevoli. Tocca a voi, insomma.

* AaVv, "Vom Wert der Arbeit", Rotpunktverlag, Zürich 2006; "La valeur du travail", Antipodes, Lausanne 2006.

Pubblicato il

22.12.2006 02:30
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