Fabbriche della morte

Le fabbriche dell'Asia meridionale vengono spesso definite "trappole mortali", soprattutto da chi giorno dopo giorno si guadagna da vivere lavorandoci dentro. Strutture fatiscenti, spazi angusti divisi in celle sovraffollate di operai, anche minorenni; finestre sbarrate, poche uscite di sicurezza segnalate male e puntualmente chiuse a chiave, oppure ostruite da pile di cartoni. Poi mancanza di magazzini dedicati allo stoccaggio di materiali pericolosi, e la quasi totale assenza di sistemi di rilevamento incendi. Queste condizioni sono alla base di alcune delle peggiori tragedie sul lavoro della storia, non solo asiatica, accadute negli ultimi mesi. A distinguersi in questa lista nera sono Pakistan, Bangladesh e India, nazioni caratterizzate da un'enorme forza lavoro a basso costo, dove solo da settembre a fine novembre di quest'anno hanno perso la vita 502 persone in quattro incidenti distinti. Il primo è accaduto a Sivaksi, città del Tamil Nadu, nell'India meridionale, dove un incendio divampato nella fabbrica di fuochi artificiali Om Shakti ha intrappolato i 250 operai che si trovavano al lavoro, uccidendone 38. Sebbene in questo caso (l'unico) le uscite di sicurezza fossero fruibili, le deflagrazioni hanno comunque provocato delle vittime, molte delle quali cittadini giunti a prestare soccorso. Pochi giorni dopo, esattamente l'11 settembre, il Pakistan è stato sconvolto da due gravissimi incidenti, uno dei quali rappresenta il peggiore disastro industriale del Paese. Si tratta del rogo della Ali Enterprises, fabbrica di prodotti tessili di Badia Town nei pressi di Karachi, dove un boiler è esploso al pian terreno, incendiando dei contenitori pieni di acidi altamente infiammabili. Le lingue di fuoco si sono rapidamente estese, alimentate da enormi cataste di tessuti e filo, intrappolando gli operai ai piani superiori. Il terribile bilancio è stato di 315 vittime, stroncate dalle esalazioni tossiche, dalle fiamme o morte lanciandosi dalle finestre nel tentativo di fuggire al rogo. Sono stati 250 i feriti. Una volta spento l'incendio, è emerso che tutte le uscite di sicurezza erano state chiuse a chiave, rendendo così impossibile qualsiasi tentativo di fuga. Nelle stesse ore, una fabbrica illegale di scarpe di Lahore, nel Pakistan centrale, è stata avvolta dalle fiamme dopo l'esplosione di un generatore elettrico. L'incendio è scoppiato nel garage che costituiva l'unica via di entrata e di uscita dell'intera fabbrica. Ciò nonostante, gli oltre 200 operai sono riusciti a crearsi un varco per fuggire, ma 25 di loro hanno perso la vita. Arriviamo quindi al 24 novembre, quando 124 operai sono morti all'interno della Tazreen Fashion Factory, azienda tessile operante per importanti marchi occidentali come Walmart, Carrefour e Ikea. La tragedia è accaduta in un sobborgo di Dhaka, capitale del Bangladesh, a causa di un cortocircuito che ha incendiato i tessuti sintetici depositati a pile negli spazi interni. Anche in questo caso gli operai sono fuggiti ai piani superiori in quanto l'uscita non era raggiungibile a causa delle fiamme e tutti i varchi di sicurezza chiusi a chiave oppure bloccati da pile di cartoni. I pompieri hanno lottato per 17 ore prima di avere la meglio sull'incendio; al termine del quale le strade di Dhaka sono state invase dagli operai in rivolta che, al pari di quanto accaduto a Karachi e Lahore, chiedono condizioni più sicure sul posto di lavoro e il riconoscimento di maggiori garanzie in termini di tutela sindacale. Per raffreddare gli animi, il primo ministro del Bangladesh Sheikh Hasina ha espresso il suo cordoglio per le vittime, chiedendo l'avvio di un'attenta indagine per chiarire le responsabilità. Solo nel 2012, almeno 300 fabbriche sono state chiuse a Dhaka e dintorni in seguito alle manifestazioni di protesta dei lavoratori, esasperati dalle condizioni spaventose in cui sono costretti a lavorare. Non a caso dal 2006 ad oggi, sono 500 gli operai del comparto tessile uccisi dagli incendi nelle fabbriche.


In cambio di uno stipendio variabile tra i 20 e i 70 euro al mese, in Asia meridionale i lavoratori sono vittime impotenti di un sistema fortemente corrotto, capace di inibire le organizzazioni sindacali, e di far passare leggi che tutelano gli interessi dei grandi industriali. Un caso eclatante è quello del Pakistan dove, sebbene la Costituzione riconosca il diritto alla tutela dei lavoratori, non esistono organi in grado di vigilare. Anzi, un'ordinanza introdotta nel 2003 dai governi di Sindh (Karachi) e Punjab (Lahore) ha addirittura abolito le ispezioni sul posto di lavoro da parte di osservatori esterni, allo scopo di «favorire la creazione di un ambiente amichevole per lo sviluppo dell'economia». Andando a cercare bene, però, in Pakistan esiste e come una legge specifica per la tutela dei lavoratori! Rientra nel Factory Act, regolamento introdotto nel 1934 dai coloni inglesi, riadattato poi nel 1963, e paradossalmente integrato nel 1997 con un capitolo specifico dedicato alla prevenzione degli incendi. In base al Factory Act, il proprietario della Ali Enterprises ora latitante all'estero, rischia di subire un'ammenda di 500 rupie (circa 4,5 euro) qualora fosse incolpato di negligenza verso gli operai. Sarwar Bari, attivista per i diritti dei lavoratori pakistani, ha dichiarato alla Express Tribune «quanti industriali appartengono alle fazioni politiche al potere, e quanti partiti sono controllati dagli industriali, che non sono violano le leggi sul lavoro, ma anche gli standard di sicurezza e igiene. Sono loro a vietare le unioni indipendenti dei lavoratori all'interno delle fabbriche». Il dramma dei lavoratori asiatici non è solo una "questione locale", ma una conseguenza delle enormi pressioni che gli imprenditori ricevono dai clienti stranieri, soprattutto occidentali, che impongono prezzi e condizioni spesso irrealizzabili. È anche colpa loro e delle loro commesse milionarie, se gli operai sono costretti a ritmi di lavoro sfrenati, e ad orari prolungati spesso non retribuiti. 

Pubblicato il 

21.12.12

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