Quando impera la competitività

"Un netto progresso sociale". Con queste parole, il commissario europeo Vladimir Spidla ha annunciato l'accordo raggiunto dai ministri del lavoro dell'Unione europea che, semmai venisse sciaguratamente approvato dal Parlamento di Strasburgo, abolirebbe il tetto delle 48 ore settimanali di lavoro per alzarlo a 60-65 ore. Con il loro voto, 22 ministri su 27 – meritano menzione gli stati contrari, che sono Spagna, Grecia, Cipro, Belgio e Ungheria, mentre i nuovi governi di Francia e Italia hanno abbandonato la loro storica posizione saltando sul carro dei deregolatori guidati dagli inglesi – hanno dunque interrotto un cammino che da 120 anni aveva accompagnato l'emancipazione collettiva dei lavoratori in tutto il mondo.

Nella seconda metà dell'Ottocento, infatti, iniziò la lunga battaglia per la riduzione dell'orario che trovò anche un momento internazionalmente riconosciuto, la Festa del 1° Maggio, prima in Canada e negli Stati uniti e quindi in Europa nel 1889, quando la festa venne ufficializzata dai delegati socialisti della Seconda internazionale. Al centro della festa, la conquista delle otto ore giornaliere di lavoro. Per questo in tutto il Vecchio continente scioperarono e scesero in piazza milioni di lavoratori, in Italia i primi furono i metalmeccanici e le mondine del Vercellese, nel lontano 1906. Tutto il XX secolo è stato segnato dalle lotte per le 40 ore settimanali di lavoro, otto ore per cinque giorni accompagnate da un weekend di riposo, che in Italia datano 1957, quando l'obiettivo venne raggiunto alla Olivetti di Ivrea e, da qui, si diffuse in tutto il paese.
Marcia indietro, dunque, pesantissima. In nome della competitività internazionale e del liberismo, che con l'allargamento ai nuovi regimi filoamericani dell'Est compongono la parola d'ordine dell'Unione europea. Se l'accordo dei ministri verrà approvato dal Parlamento di Strasburgo, la nuova direttiva consentirà ai paesi membri dell'Ue di avviare un nuovo sistema di relazioni industriali che potrebbe cancellare il ruolo stesso dei sindacati, consentendo alle singole imprese di sottoscrivere con i lavoratori accordi finalizzati al superamento delle leggi che fissano a 48 il numero di ore massime di lavoro alla settimana. In questo modo verrebbe infatti cancellata la contrattazione collettiva tra le parti sociali, mettendo il lavoratore nudo davanti alla prepotenza padronale. Se in Italia i bassi salari costringono già oggi gli operai ad aumentare l'orario di lavoro con gli straordinari per integrare uno stipendio da fame, figuriamoci cosa potrebbe succedere in paesi come la Slovacchia o la Lituania. Il governo Berlusconi e la Confindustria guidata da Emma Marcegaglia sono all'avanguardia nella battaglia globale per la deregulation del lavoro: si parla addirittura di contratti "su misura", come gli abiti fatti dal sarto. Il tentativo concreto in Europa è quello di trasformare il conflitto tra capitale e lavoro e tra gli stati in un conflitto tra lavoratori di paesi e di aziende diverse. E' il tentativo di cancellare tutte le conquiste novecentesche dei sindacati e dei lavoratori. Persino la timida Confederazione europea dei sindacati, la Ces, le cui battaglie si contano sulla punta delle dita di una mano, è stata costretta a battere un colpo, prima che l'accordo dei ministri Ue venga trasformata in direttiva dal Parlamento europeo.
C'è di più. L'accordo raggiunto a Bruxelles prevede addirittura la possibilità di sfondare ad libitum le 60 ore settimanali (65 per vigili del fuoco, infermieri e medici per i quali le ore di guardia vengono considerate tempo inattivo, cioè non lavorato pur essendo costretti a tenersi a disposizione) attraverso un accordo, in questo caso collettivo stipulato tra le parti sociali o previo intervento legislativo del singolo stato. Mentre nel contratto individuale è previsto il consenso (teorico) del lavoratore, in quest'ultimo caso tutti i lavoratori interessati dall'accordo sarebbero costretti a obbedire e consegnare l'intero tempo di vita nelle mani del padrone.
Un ultimo aspetto, il più terribile: un allungamento senza più limiti e vincoli sociali dell'orario non farebbe che moltiplicare gli infortuni sul lavoro. Sarebbe la legalizzazione di un crimine, un'istigazione ai padroni a delinquere. Solo per fare un esempio, gli operai bruciati alla ThyssenKrupp erano alla dodicesima ora di lavoro quando è avvenuta la strage che ha ucciso sette di loro. Poi si parla di disattenzione dei lavoratori, per scaricare sull'anello più debole della catena quelle responsabilità che invece vanno cercate altrove.

Norme di sicurezza fantasma
In Italia le morti sul lavoro si moltiplicano. Multinazionali sotto accusa

Il 2007 si è chiuso con una strage sul lavoro che ha fortissimamente impressionato l'opinione pubblica italiana: 7 operai del gigante siderurgico tedesco, la ThyssenKrupp, sono morti bruciati, chi immediatamente e chi soltanto dopo giorni e giorni di tormenti. L'emozione che questo massacro, prevedibile e reso possibile dal progressivo abbandono di ogni norma di sicurezza da parte dell'azienda che aveva deciso la chiusura dello stabilimento torinese, ha lasciato sperare che qualcosa finalmente cambiasse in un paese in cui muoiono ammazzati in fabbrica, nei cantieri edili e navali, in campagna, quasi quattro lavoratori al giorno. Tanto più che l'inchiesta torinese è finita nelle mani di una delle poche procure italiane impegnate nella lotta agli omicidi bianchi, grazie all'azione straordinaria del procuratore Raffaele Guariniello.
Effettivamente il governo Prodi, in uno degli ultimi suoi atti, ha realizzato una delle sue rarissime iniziative dalla parte degli operai e non delle imprese, varando un impegnativo protocollo per garantire una maggiore sicurezza sul lavoro. Nulla di rivoluzionario, per carità, ma almeno un argine legislativo alla protervia padronale che tenta di scavalcare qualsivoglia vincolo sociale, sindacale e legale che ostacoli il suo unico obiettivo: i profitti. La Confindustria ha gridato allo scandalo chiedendo forti riduzioni di pena per i suoi associati colpevoli di non osservare la normativa prevista per ridurre i rischi di infortuni che provocano annualmente un milione di feriti e 1200-1300 morti. Più delle guerre in Iraq e in  Afghanistan.
Il 2008 si era aperto esattamente come si era chiuso l'anno precedente, con leggi più severe che, rimaste lettera morta, non hanno fermato le mattanza. Alle quotidiane, anonime morti individuali si sono aggiunte nuove stragi, dalla Puglia alla Sicilia. L'ultima a Mineo, in provincia di Catania, dove 6 operai sono morti avvelenati dalle esalazioni tossiche di un depuratore di cui stavano curando la manutenzione. Anche in questo caso, il mancato rispetto delle più elementari norme di sicurezza è all'origine della tragedia. Uno degli operai che avrebbe dovuto essere specializzato e dunque a conoscenza dei rischi connessi al suo lavoro era stato assunto il giorno precedente dalla ditta a cui erano stati appaltati i lavori. Dopo Mineo, Milano: è della scorsa settimana la morte di due operai egiziani per il crollo di un ponteggio in un cantiere edile.
Sono sempre di più i lavoratori stranieri, occupati spesso al nero in ditte d'appalto ingaggiate da grandi imprese e persino da strutture pubbliche, a perdere la vita dentro un'organizzazione del lavoro selvaggia che punta sul dumping sociale per abbattere i costi. Si muore nei piccoli cantieri e nei lavori connessi alle grandi opere, dall'alta velocità ferroviaria alle gallerie stradali e autostradali. Appalti al massimo ribasso, taglio dei tempi di esecuzione, utilizzo di lavoratori non professionali, assenza di delegati sindacali (si chiamano Rls quelli addetti alla sicurezza) che, anche quando esistono, si vedono negare il diritto a svolgere la propria funzione. Così vanno le cose nell'edilizia, nell'agricoltura come nelle multinazionali, che si chiamino ThyssenKrupp o Fincantieri, Fiat o Ferrovie dello stato.
Siccome i guai per i lavoratori non arrivano mai soli, al governo è tornato Berlusconi con i suoi alleati leghisti e postfascisti e subito le suppliche confindustriali hanno trovato ascolto: effettivamente le sanzioni previste dalla nuova normativa sono troppo gravose per gli imprenditori, bisognerà rivedere la legge. Senza pudore. Perché in un paese in cui quotidianamente si inneggia alla sicurezza per colpire immigrati e rom e si militarizzano le città, affiancando le ronde "leghiste" con ronde in divisa, l'unica sicurezza di cui non frega niente a nessuno è quella sul lavoro.   

Pubblicato il

20.06.2008 03:00
Loris Campetti