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Quando farà tutto l’intelligenza artificiale chi saprà ancora fare?

Man mano che deleghiamo all’IA il compito di pensare, scrivere, creare, rischiamo di perdere il contatto con ciò che ci rende umani: la fatica del fare e l’esperienza dell’imparare

Nella precedente rubrica ho mostrato quanto sfruttamento, in gran parte invisibile, ci sia dietro la crescita dell’intelligenza artificiale (IA). Ora vorrei riflettere sui rischi dell’IA, che sono allegramente sottostimati. Non mi riferisco alla sostituzione del lavoro umano, pur importante che sia, ma a qualcosa di più fondamentale: cosa succede quando l’IA sa fare tante cose che fanno le nostre menti e così bene che noi smettiamo di farle?

 

In primis, bisogna chiarire la questione spinosa di cosa può e non può fare l’IA. Il suo merito, addirittura il suo scopo, è di produrre (sulla base di dati, calcoli e correzione di errori) un risultato credibile, ma che non si può considerare “veritiero”. Si tratta di una verisimilitudine basata su calcoli di probabilità. Ma questo basta a generare risultati assolutamente impressionanti, anche per chi “se ne intende”, in campi sempre più disparati: dal brano musicale, all’opera letteraria , per non parlare del testo accademico. Come noi, l’IA impara e migliora lavorando, ma lo fa molto più velocemente, grazie alle risorse che vi dedicano mega-imprese con tasche senza fondo.

 

Dove sta allora il limite? È frequente leggere analisi in cui si spiega che un determinato modello di IA, pur sapendo fare tante cose, non ne sa fare altre che l’uomo invece sa fare. Ma precisamente qui sta il problema, perché è quando si riesce a riconoscere cosa non sa fare l’IA che diventa possibile allenarla per insegnarglielo. Chiarisco questo aspetto con due esempi. Nei primi modelli si faceva fatica a ottenere risposte sensate a domande di senso comune (perché l’IA non ha un senso comune) del tipo “quanti piedi si possono mettere in una scarpa?”. Adesso che il problema è stato individuato, però ce la fa e addirittura commenta “che domanda divertente!”. Un altro esempio è la difficoltà, ben conosciuta da chi usa l’IA per disegnare, nella rappresentazione della mano umana (la nostra articolazione più complessa e la manifestazione materiale della nostra intelligenza) e del suo movimento. Ma anche questa difficoltà è in via di risoluzione.

Pur preoccupando, è forse non così grave che l’IA possa essere allenata per superare tutti questi ostacoli? Forse è anche bello, come hanno affermato in modo schietto i vertici della Big Tech a Davos: ognuno può diventare bravo come uno specialista di qualsiasi disciplina, è la democrazia! Per capire il problema, consideriamo la traduzione di testi. L’IA riesce a tradurre in modo sempre più veloce e preciso, adattandosi anche alle particolarità del linguaggio (letterario, parlato eccetera). Di conseguenza, molti traduttori (che sono sempre di meno) usano l’IA per velocizzare il lavoro, non potendo competere in termini di parole tradotte al minuto. Il loro diventa dunque un lavoro di verifica di cos’ha prodotto l’IA. E funziona, perché chi lo fa negli anni ha imparato (come impariamo tutti, umani e algoritmi) ed è diventato esperto, traducendo, rileggendo, facendo errori e da essi traendo insegnamento. Ha dunque la capacità di correggere il lavoro dell’IA e di consentirle così di imparare.

 

Ma se smettiamo di svolgere il lavoro alla base dell’apprendimento di una determinata competenza, come potremo svilupparla in futuro? Chi saranno gli esperti che controlleranno l’IA un domani, quando nessuno saprà più fare quello che fa? Cos’è un traduttore se non un essere umano che traduce? Per questo cerco di convincere i miei studenti dell’importanza di leggere testi, anche se sono difficili. Perché l’intelligenza umana si sviluppa superando ostacoli, non lasciando che siano altri a superarli per noi.

FOTO: AdobeStock

Pubblicato il

26.04.2025 07:05
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