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Quale politica per quale cinema
di
Gianfranco Helbling
Che ne è oggi del cinema politico in Svizzera? Cosa gli è successo da quando il nostro paese ha una seppur esitante politica del cinema? Sarebbe stato difficile trovare un argomento più intrigante e centrato per sottolineare degnamente il quarantesimo anniversario delle Giornate cinematografiche di Soletta, svoltesi la scorsa settimana. Quello di Soletta è infatti un festival legato a doppio filo sia al cinema politico che alla politica del cinema in Svizzera, e la tavola rotonda di sabato ha permesso di tracciare un percorso retrospettivo e di abbozzare un bilancio parziale. A ricordare gli albori del cinema politico in Svizzera è stato invitato Alexander J. Seiler, autore di quel “Siamo italiani” che nel 1964 ha impresso una svolta alla nostra cinematografia assieme ai film preparati per l’Esposizione nazionale di Losanna da Henry Brandt e a “Les apprentis” di Alain Tanner (guarda caso tutti documentari: per dire del bisogno che c’era fra i giovani registi di allora di raccontare il reale, e già questo era un atto squisitamente politico). Per Seiler in quegli anni si cominciava a capire che «c’era dell’altro da vedere oltre al tradizionale idillio svizzero, e in questa funzione le Giornate di Soletta sono state fin dalla loro prima edizione, nel 1966, indispensabili. Giornate che sono state il risultato di una politica cinematografica avviata qualche anno prima in vista della nuova Legge sul cinema e del lavoro di un attivista come Walter Marti». Gli anni ’60 sono pure stati ricordati da Jean-Jacques Lagrange, pioniere del nuovo cinema in Romandia, membro del celebre “Groupe 5” e cofondatore della Tsr: «mentre negli anni ’50 il cinema svizzero era ben radicato nella Svizzera tedesca, in quella francese non c’era nulla. Noi ci trovammo quindi ad operare nel deserto: chi voleva fare professionalmente del cinema doveva partire, come Tanner e Claude Goretta. Per questo riponemmo molte speranze nella televisione come strumento di produzione. Su di noi ebbe un grosso influsso il Congresso di Lione di cinema verità del 1963, cui parteciparono fra gli altri Rossellini e Zavattini. In tv cercammo dunque di fare del cinema verità, parlando di gente normale, umile, nelle situazioni comuni della vita di tutti i giorni e suscitando un vero choc in Romandia: perché di molte nostre realtà di cui trattavano quei documentari non si erano mai viste immagini fino al ‘64». Esemplare in questo senso “Médecin de campagne” di Tanner, con la scena di un’audace (per l’epoca) lezione di educazione sessuale e affettiva in una classe di giovanotti figli di contadini. Hans Ulrich Schlumpf, regista e già direttore del Centro svizzero del cinema, rimpiange dal canto suo i dibattiti molto accessi che animavano le prime edizioni delle Giornate fin dentro agli anni ’70: c’erano meno film ma molto più impegno. Certo c’erano degli eccessi e, accecato dall’impegno, il pubblico preferiva opere decise come “Charles mort ou vif” di Tanner (’69) e spesso non riconosceva il valore di lavori dai toni più sfumati: emblematici i fischi rivolti a Daniel Schmid, «con i soldi che hai buttato via si sarebbe potuto fare un film di denuncia sulla crisi degli alloggi», gli fu rimproverato. Forse però non è un caso, osserva Schlumpf, che oggi, con lo spegnersi dei dibattiti e con la maggior attenzione dei registi per la forma più che per il contenuto dei loro film, l’Udc comincia a prendere possesso della cultura e ad usare anche il cinema. Ma Schlumpf ha ricordato anche un’altra pietra miliare, e a posteriori decisiva, nella lotta per la diffusione del nuovo cinema svizzero: la battaglia giudiziaria contro l’ostracismo dei distributori, condotta e vinta nel per permettere l’uscita nel circuito commerciale di un film come “La salamandre” di Tanner (’71), che ebbe poi un grande successo di pubblico. Fu quella una battaglia condotta non solo contro i distributori, ma anche contro i funzionari della Confederazione, all’epoca ancora imbevuti della difesa spirituale del paese. Uno strappo nella storia del nuovo cinema svizzero si ebbe nei primi anni ’80, accelerato dal movimento giovanile di Zurigo. Il film-simbolo di quel periodo, che scatenò accesi dibattiti anche a Soletta, fu proprio “Züri brännt”, istantmovie documentario girato in video e in tempo reale da diverse squadre del collettivo Videoladen (da cui sarebbero usciti fra gli altri Samir e Werner Schweizer che qualche anno dopo daranno vita alla Dschoint Ventschr, casa di produzione oggi leader in Svizzera). Per un’esponente di quella generazione come la regista e sceneggiatrice Josy Meier il cinema del movimento ha anticipato le novità del decennio successivo, mettendo in discussione e provocando la generazione del dopo ’64: l’uso del video, la produzione in collettivi, il ritorno al genere agit-prop e una ricerca formale molto spinta ne sono le espressioni più evidenti. Ma è anche una questione di soldi: fu nel 1984 che a Soletta la generazione dell’80, i “nuovi nuovi”, pretese in un’animatissima conferenza stampa e con un manifesto di avere finalmente accesso alla promozione cinematografica della Confederazione, chiedendone un terzo per sé. Anche per il regista solettese Remo Legnazzi gli anni ’80 erano caratterizzati dal piacere di rimettere tutto in discussione: emblematico il suo documentario “E nachtlang im Füürland”, girato nelle bettole senza luci d’appoggio nell’86 con Clemes Klopfenstein, che «segna una liberazione dalla tradizione formale e produttiva degli anni precedenti e porta sullo schermo il movimento femminista», fino ad allora ignorato dal nostro cinema. Per Josy Meier quel periodo si chiude con un altro documentario, “Dani, Michi, Renato und Max” di Richard Dindo (’87), che indaga alcune morti sospette a margine dei moti giovanili zurighesi: «gli anni ’80 erano nati in maniera eruttiva, vitale, avevamo la pretesa di darci dei mezzi per esprimerci: Dindo invece parla di morte, pone fine a quell’epoca e apre la strada al decennio successivo, che è molto meno politicizzato». L’accusa di disimpegno non è (ovviamente) raccolta dai registi della generazione successiva, come Sabine Gisiger che con Marcel Zwingli ha realizzato nel ’95 “Motor Nasch”, racconto del destino di sei donne russe lungo la parabola del comunismo: «per me la caduta del muro di Berlino è un tornante decisivo: da allora si sono fatti troppi film dalla parte dei vincitori, si è continuato la guerra fredda con altri mezzi. Avvertivo dunque la necessità di dare un contrappunto, di confrontarmi con i nostri pregiudizi: volevo dimostrare che le donne russe non passano la loro vita in fila per comprare il pane», ha detto Gisiger. Nemmeno per Kaspar Kasics, autore tra l’altro del celebre documentario “Closed Country” (’99) sul destino degli ebrei quando si presentavano alla frontiera svizzera durante la seconda guerra mondiale, il cinema politico sta scomparendo: «c’è ancora l’interesse a lavorare in quella tradizione, solo che oggi la posizione dell’autore nel film è più discreta. Si fanno film più emozionali e riflessivi, meno di denuncia. Con “Downtown Switzerland” (2004) non volevo fare un film d’intervento, ma qualcosa di spontaneo, perché mi sembra che oggi il pubblico apprezzi dei toni non troppo politici. Per me un film è già politico quando suscita una reazione, anche di rifiuto». Tuttavia anche Kasics ammette che «oggi c’è più prudenza, non si vuole ferire la political correctness». La discussione che è seguita ha trovato quasi tutti i partecipanti pessimisti riguardo al futuro (tranne Meier, che ha sottolineato l’importanza che le donne continuino a fare del cinema come hanno fatto a partire dagli anni ’80). Avanzata dell’Udc, tagli ai finanziamenti pubblici alla cultura, indifferenza del pubblico potrebbero far riscivolare il cinema svizzero nell’apatia da cui era uscito nel ’64. Per Lagrange il nostro cinema deve ricominciare a «far vedere gli svizzeri agli svizzeri» come atto politico. Per Schlumpf d’altro canto la politicizzazione della scena culturale è necessaria perché «l’altra parte si sta a sua volta politicizzando». Un’impressione condivisa da Legnazzi: «il clima sta diventando più freddo, sarà sempre più difficile fare del cinema liberamente. Oggi alle proiezioni qui a Soletta più nessuno fischia: fa parte del clima generale, si accetta tutto». Anche la studiosa di cinema Marcy Goldberg dell’Università di Zurigo ha messo in guardia contro la pressione della destra: «ci vuole una rete solidale per difendere gli interessi del cinema svizzero. E bisogna ritornare a fare del cinema d’intervento politico e sociale. Ma soprattutto alla destra bisogna rispondere con i suoi argomenti, quelli del mercato, sottolineando ad esempio il grande successo all’estero di molti film autocritici quali “Das Boot ist voll” di Markus Imhoof, “Jonas qui aura 25 ans en l’an 2000” di Tanner o “Reise der Hoffnung” di Xavier Koller. Se si risponde alla destra soltanto riferendosi al mandato culturale di chi fa cinema si è perdenti». Ma per Goldberg è comunque necessaria anche un’autocritica: perché non si può più accettare che la Svizzera sia assente dalla lista dei 50 paesi cinematograficamente più importanti del mondo stilata ogni anno dai Cahiers du cinéma. Sulla stessa linea anche Seiler: «certo questo è un momento relativamente ricco, ma ci siamo fidati troppo dei meccanismi di mercato e della crescita quantitativa del nostro cinema. Ora siamo in pericolo perché abbiamo lasciato la politica cinematografica in mano ai politici e ai media. Ricordiamoci che il cinema politico non sarebbe mai nato senza una politica del cinema». Un’osservazione per concludere: al dibattito non è stata invitata la nuova generazione di registi, quella nata con in mano una camera digitale e cresciuta montando i suoi film col programma Final Cut sul computer di casa. È la generazione delle provocazioni anche politiche di “Dögmeli” e di un nuovo modo di avvicinarsi al racconto per immagini. Ed è soprattutto la generazione del futuro, quella che ci racconterà ai nostri figli. Ma ancora una volta i “vecchi maestri”, a qualsiasi generazione appartengano, hanno creduto di poter bastare non solo a sé stessi, ma anche agli altri. È stata decisamente una buona annata il 2004 per il cinema svizzero sul fronte della qualità della produzione, in particolare della fiction (per una volta). I registi svizzeri hanno infatti risposto con una sorprendente vitalità ai più o meno velati attacchi alla libertà d’espressione e agli inviti alla prudenza nell’esprimere le proprie idee («non segate il ramo su cui state seduti», ha ammonito il capo della Sezione cinema dell’Ufficio federale della cultura Marc Wehrlin). Se ne è avuta la dimostrazione in occasione della quarantesima edizione delle Giornate cinematografiche di Soletta, conclusesi domenica. Su tutti spiccava “Tout un hiver sans feu”, ottimo debutto registico del polacco Greg Zglinski (in concorso a Venezia). Si tratta di un intenso dramma umano e famigliare, del difficile tentativo di uscire da un lutto devastante per trovare nuove ragioni per vivere, il tutto sullo sfondo dell’immigrazione kosovara in Svizzera. Zglinski ha saputo fondere molto bene la tradizione del nuovo cinema svizzero “alla Tanner” con la lezione formale ed espressiva di un Krzysztof Kieslovski (di cui Zglinski è stato assistente). Meritatamente “Tout un hiver sans feu” ha vinto il Premio del cinema svizzero per il miglior lungometraggio. Altre opere dell’annata meritano una citazione. A cominciare da “Strähl”, poliziesco sui generis e a basso costo ambientato nel giro del traffico di droga e della tossicodipendenza della Langstrasse a Zurigo e diretto da Manuel Flurin Hendry. “Strähl” ha ottenuto al botteghino, specialmente a Zurigo, un buon successo, a dimostrazione che gli spettatori delle realtà urbane vogliono film in cui riconoscersi. Ma non va dimenticato neppure un altro film “urbano”, “Im Nordwind” di Bettina Oberli, che con attenzione agli aspetti psicologici e umani racconta una storia non nuova ma sempre attuale: quella del marito licenziato per ristrutturazione che non osa dirlo alla moglie. Sul fronte dei documentari visti a Soletta spicca invece “Katzenball” di Walo Deuber, accurato quanto spigliato ritratto della vita delle lesbiche in Svizzera e della loro lotta per non più essere discriminate. Si tratta di un lavoro estremamente convincente per la ricchezza di materiale d’archivio ritrovato, per il rigore nella selezione, per la selezione delle testimoni che si raccontano e per l’accuratezza del montaggio.
Pubblicato il
04.02.05
Edizione cartacea
Anno VIII numero 5-6
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