Qualcosa di irreale

Duecentoventi morti, uno più, uno meno, in poco più di una settimana, al momento in cui scrivo; qui il lettore potrà annotare il bilancio aggiornato quando leggerà queste righe. La carneficina continua e continuerà sino a quando chi può (leggi gli Stati Uniti) non vorrà imporre una svolta alla politica israeliana. Questa potrà partire solamente da alcune considerazioni di principio che chiunque intenda svolgere opera di mediazione deve far proprie. Essenzialmente possono essere riassunte in tre punti: • A battersi non sono due forze con gli stessi diritti: da una parte ci sono gli occupati e dall’altra gli occupanti. • Ne consegue che le due violenze, parimenti tragiche, non possono essere considerate equivalenti. L’occupato si difende, l’occupante opprime. • Questa atroce guerra non ha niente da spartire con il conflitto globale contro il terrorismo. Se terroristiche sono le azioni dei kamikaze palestinesi contro i civili israeliani in Israele, non meno terroristici sono i bombardamenti dell’esercito, della marina e dell’aviazione israeliani contro gli agglomerati arabi. Ora, è da dubitare che il mediatore americano Anthony Zinni abbia bene in mente questi tre punti; ancora più dubbio è l’eventualità che li condivida. Certo, se si pensa all’appello lanciato da Kofi Annan martedì scorso (al termine di una delle giornate più nere, con l’uccisione a Ramallah di decine di palestinesi e con l’attacco a un bus israeliano nell’Alta Galilea) c’è da temere non sull’esito, ma sullo stesso avvio di negoziati utili. Il segretario generale dell’Onu si è rivolto a Sharon e ad Arafat ponendo le responsabilità d’ognuno su uno stesso livello. È la diplomazia ma Annan, quando si rivolge a Israele, non può, non deve dimenticare, come invece regolarmente avviene, che si rivolge allo Stato che più d’ogni altro ignora, da decenni, le risoluzioni dell’Onu, fatto questo che, ad altre latitudini, viene preso a giustificazione di operazioni belliche. Le speranze appese ai negoziati In vista di questa nuova tornata di negoziati sui quali sembrano posarsi tante speranze, è stato osservato che «Sharon cede». In effetti c’è chi n’è convinto, come i due ministri dell’estrema destra, che più estrema non si può, che sono usciti dalla coalizione governativa israeliana. Le due colpe imputate a Sharon sono: avere permesso ad Arafat di muoversi all’interno dei territori palestinesi, togliendo il blocco impostogli dal 3 dicembre scorso e avere rinunciato alla richiesta di sette giorni di tregua prima di riaprire le trattative. Vediamo: Sharon ha «ceduto» su Arafat solo dopo che questi aveva proceduto all’arresto dell’ultimo indiziato per l’omicidio del ministro israeliano Rehavam Zeevi. Era la «conditio sine qua non» posta da Sharon. I palestinesi l’hanno ossequiata. Tanto che Arafat è stato addirittura definito «collaborazionista» in una popolare trasmissione della rete televisiva «Al Jezira», la più seguita dall’intero mondo arabo. In ogni caso, Yassir Arafat, per andare all’estero deve chiedere il permesso a Sharon. Ora è solamente libero di muoversi all’interno di una prigione comune, quella nella quale gli israeliani hanno rinchiuso tre milioni di palestinesi. Con la sola differenza che Arafat potrà spostarsi da una «cella» all’altra di questa galera, mentre a tutti gli altri detenuti è reso impossibile uscire dal proprio angusto territorio di confino. Sulla rinuncia poi ai sette giorni di tregua, non va dimenticato che il ministro della difesa Ben Eliezer, numero uno dei laburisti, aveva minacciato di respingere pubblicamente la condizione di Sharon. Ma al di sopra di tutto, resta il fatto che il governo israeliano, nel suo assieme, doveva «cedere» prima dell’arrivo di Zinni, per non porsi nella condizione di apparire come costretto dal troppo potente alleato. Le speranze paiono ora riposte nel piano di pace avanzato dall’Arabia Saudita. Ma affinché un qualsiasi piano possa riuscire, occorre che in Israele (e nel suo più stretto alleato) maturi prima la convinzione che non esistono alternative, che la forza non offre soluzioni, che i palestinesi resisteranno a oltranza. Fatto quest’ultimo che dovrebbe essere già oggi più che lampante, ma che non lo è se è vero, come indica un ultimo sondaggio, che circa il 45% degli israeliani crede possibile procedere all’allontanamento dei palestinesi dai territori occupati! Le «vittorie» che spaventano Così si sta assistendo a qualcosa di irreale. Come sottolinea la stessa stampa israeliana, i comandanti dell’esercito più potente del Medio Oriente si presentano alla televisione leggendo bollettini di vittoria per l’«occupazione» di campi profughi, per sottolineare come non abbiano trovato la «resistenza» che si aspettavano! Quando l’uccisione di poliziotti, militanti della Resistenza, armati di fucili, (ma anche di tanti civili, donne e bambini) la distruzione di povere case e lo sradicamento di ulivi, da parte di uno schieramento militare forte di carri armati, blindati, elicotteri e caccia, vengono presentati come «vittorie», non si deve sorridere, ma spaventarsi. Perché vuol dire che non si è imparato niente dalla storia, come ricordava nei giorni scorsi «Haaretz». Oggi, scriveva il giornale, l’esercito è impegnato nel mantenimento di un «ordine coloniale», come accadeva nei peggiori periodi dell’apartheid in Sud Africa. Una condotta politica fallita innumerevoli volte, dal Kenya al Vietnam, all’Algeria. E proprio come accadeva in quei luoghi e in quei tempi, mentre i soldati reprimevano da una parte, il nemico colpiva dall’altra. L’esercito conduce a Ramallah, la «capitale» dell’Autonomia palestinese la più vasta operazione di rastrellamento dall’inizio dell’Intifada? La resistenza palestinese si attiva a nord, a ridosso del confine con il Libano…. I palestinesi si stanno battendo per la loro sopravvivenza, gli israeliani per quella di duecentomila coloni: è quanto ricorda quotidianamente il più noto pacifista israeliano Uri Avneri, secondo cui un crescente numero di israeliani sta cominciando a prendere coscienza di questa realtà. L'Onu dice sì allo Stato palestinese Richiamate tutte le risoluzioni precedenti, e in particolare la 242, del 1967 e la 338, del 1973, il Consiglio di sicurezza dell’Onu si è detto favorevole all’idea «di una regione in cui due Stati, Israele e Palestina, vivano fianco a fianco entro frontiere sicure e riconosciute». Lo si legge nella risoluzione votata martedì notte al palazzo di vetro delle Nazioni Unite a New York. Non era mai accaduto prima che dall’Onu uscisse un documento tanto preciso sul diritto ai palestinesi ad avere un proprio Stato. Occorre risalire al lontano 1947, quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite votò la celebre risoluzione sulla spartizione della Palestina, nella quale, accanto allo Stato ebreo, era prevista la costituzione di uno Stato arabo. Due sono poi gli elementi da sottolineare. Il primo: la risoluzione di martedì era stata presentata dagli Stati Uniti, fatto questo che parrebbe indicare una svolta nella posizione americana e, vista la concomitanza con il viaggio di Zinni, proverebbe anche la determinazione di Washington a condurre realmente un’opera di mediazione (anche se sulla posizione Usa restano ovviamente i dubbi espressi nell’articolo a fianco). Il secondo è che nel testo vi si trova un esplicito riconoscimento della proposta di normalizzazione dei rapporti fra mondo arabo e Israele lanciata dal principe ereditario saudita Abdallah. Una proposta che a questo punto sembra essere diventata la base di ogni futuro negoziato, sempre che Sharon permetta ad Arafat di andare a Beiruth a fine mese al vertice arabo, perché, se gli fosse impedito, il principe Abdallah non estrarrà dalla sua valigetta alcun documento.

Pubblicato il

15.03.2002 01:30
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