Il primo anniversario dell’Associazione per la difesa del servizio pubblico è caduto dopo un’importante vittoria popolare. Il fine settimana precedente i cittadini di Bellinzona, con il loro voto, si erano espressi contro la vendita della loro Azienda elettrica comunale. Con il loro voto contrario, hanno impedito che un bene pubblico, di proprietà di tutta la cittadinanza, venisse alienato in mani private. Logicamente la valenza di questo chiaro no assume carattere generale e si inserisce in quell’ampio dibattito che si è acceso intorno al ruolo dello Stato in economia e delle aziende chiamate ad assolvere un servizio pubblico. Ne abbiamo parlato con Silvano Toppi, giornalista ed economista nonché membro del comitato dell’Associazione per la difesa del servizio pubblico. Signor Toppi, perché si è creata, in Ticino, la necessità di fondare un’associazione per la difesa del servizio pubblico? Il servizio pubblico è veramente in pericolo? Non solamente perché il servizio pubblico è minacciato ma perché, con continua opera demolitrice da parte della filosofia economica imperante, si tenta di annullare sia la nozione sia la funzione di servizio pubblico. Mi spiego. Ciò che è pubblico non è pubblico per caso o per moda; è «pubblico» perché risponde ad una esigenza di giustizia (disponibile per tutti e in eguale misura) e di solidarietà (non dev’essere il criterio economico a prevalere ma il raggiungimento del bene comune). In concreto: ci sono beni essenziali per un individuo o per una comunità (es.: formazione, salute, sicurezza, strutture di crescita come possono essere la mobilità, l’elettricità, il credito, la comunicazione) di cui tutti, indistintamente e in qualsiasi condizione, devono poter usufruire e che perciò stesso non possono essere retti semplicemente o prioritariamente da criteri di mercato, di redditività, di produttività massima, di profitto di pochi. È proprio sulla base di questo obiettivo essenziale che si forma il principio-valore irrinunciabile per una società che si vuole umana di «servizio pubblico». La continua e accelerata opera di demolizione del «servizio pubblico» negli ultimi anni (clonata come al solito dagli anglosassoni) risponde invece ai tre principi dati come indiscutibili e senza alternative dalla ideologia neoliberista imperante e cioè: l’eliminazione dello Stato (pronti però a chiamarlo in causa quando si va a picco: vedere. Swissair); la supremazia assoluta del mercato in quanto è il solo a poter fare «il giusto prezzo», eliminando i sovrapprezzi dovuti alle situazioni di monopolio del servizio pubblico (subito pronti però a fare fusioni, a creare oligopoli, ad eliminare la concorrenza in nome della ristrutturazione e dell’efficacia per ottenere i massimi profitti e far felici gli azionisti); la conduzione manageriale, in mano a poche persone, per avere prontezza decisionale e duttilità, risposte immediate ai problemi creati dalla competitività (ma con la creazione di una nuova burocratizzazione in mano a pochi privilegiati o «grands commis», con lo svuotamento di ogni indirizzo politico e la sottrazione ad ogni controllo democratico). È proprio per tutti questi motivi che si è sentita la necessità di creare l’«Associazione per la difesa del servizio pubblico» ma anche per la rivalutazione del servizio pubblico. In un anno di vita, quest’associazione, nata essenzialmente per contrastare l’ipotesi di privatizzazione dell’Azienda elettrica ticinese, si è trovata a prendere posizione anche sull’ipotesi di trasformazione giuridica della Banca Stato. Perché, secondo lei, il mandato pubblico assegnato a questi due enti pubblici non può essere svolto anche da Società anonime? Una società anonima è composta da azionisti. Gli azionisti pretendono alta redditività e dividendi e i consigli di amministrazione devono farli felici, pena la defenestrazione. C’è inconciliabilità tra la felicità degli azionisti e il bene comune poiché la prima dà la priorità ad ogni metodo che crei profitto per pochi (la massimizzazione del profitto), il secondo antepone invece criteri di giustizia, di solidarietà, di servizio e persino di gratuità nell’interesse di tutti i membri di una comunità. Per anestetizzare la resistenza all’abolizione del servizio pubblico e alla sua privatizzazione, si avanza allora l’idea (Azienda elettrica, Banca dello stato) che la maggioranza delle azioni (51 per cento) rimarrà comunque nelle mani dell’ente pubblico. L’esperienza (vedi telecomunicazioni o la stessa Swissair) o nemmeno troppo abili codicilli (l’autorità politica potrà decidere di rinunciare alla maggioranza delle azioni) hanno già smascherato il trucco: questa forma giuridica apparentemente protettiva è il grimaldello che apre diritto diritto la porta alla privatizzazione del servizio pubblico e, quindi, al suo annullamento. L’idea di «servizio pubblico» presuppone per lo meno tariffe uguali per prestazioni uguali. Ciò non sempre avviene nel campo della distribuzione dell’elettricità. Non sarebbe meglio avere un’unica azienda di produzione o dristribuzione o un’autorità che potrebbe calmierare le tariffe? Abbiamo ovviamente aziende di produzione e aziende di distribuzione con costi diversi. Si dice che la liberalizzazione dell’energia elettrica promuove la concorrenza, che la concorrenza (anche dei gruppi europei o extra-europei) porterà a eliminare gli improduttivi e poco redditizi, ridurrà le tariffe, che la «massa critica» di sopravvivenza per un’azienda sarà di almeno 100 mila clienti. Se si pensa con questi criteri, dandoli per assoluti e senza alternative, è facile immaginarsi ciò che potrebbe capitare nel Ticino. Ma la realtà già manifestati altrove, dove liberalizzazione e privatizzazione sono in auge da qualche anno (Inghilterra, Germania, in parte Svezia...per non parlare della California) hanno dimostrato che la libertà di mercato uccide se stessa generando grossi oligopoli i quali, nonostante il «mediatore nazionale» o le Commissioni per la concorrenza che non funzionano suppergiù come in Svizzera, perverranno fatalmente a intese sulle tariffe o a tariffe talmente differenziate e finalizzate – come è capitato per le telecomunicazioni e come sta capitando per le tariffe elettriche in Germania – che la pretesa trasparenza diventa... opacità assoluta e maggior profitto; che le tariffe, dopo un periodo di effettivo calo, ricominciano a crescere fortemente (Germania e anche California); che la necessità inderogabile di accontentare gli azionisti induce a «risparmiare» da qualche parte (personale licenziato, manutenzione insufficiente, innovazione inesistente, moltiplicazione incredibile delle «pannes» di elettricità (Inghilterra, Nuova Zelanda, California); che, per dimostrare la bontà dell’operazione con le tariffe ribassate, si acquista energia elettrica a basso prezzo ma da fonti altamente inquinanti o da effetto serra (un esempio sono le importazioni svedesi dalla Polonia ove si produce l’elettricità con la lignite, o incrementi di centrali nucleari, o la sempre più crescente produzione termoelettrica con gas) e si rinuncia, perché più costose, alle energie rinnovabili. Da tutto questo bisognerebbe perlomeno trarre tre conclusioni: primo, appare più irrinunciabile che mai il principio del «servizio pubblico», anche perché è l’unico a poter dare priorità all’uomo, all’ambiente, allo sviluppo sostenibile e non al guadagno e all’uso irrazionale e inquinante delle fonti; secondo, appare più che mai irrinunciabile la funzione pubblica dell’Aet come strumento fondamentale per la politica energetica ed economica cantonali (scopi per cui è stata saggiamente voluta) e, dati i costi interessanti e concorrenziali della sua produzione, come possibile equilibratore nel cantone, anche per le tariffe, come organo decisionale che rimane nel cantone e non sia risucchiato da quale grosso oligopolio fuori-cantone; terzo, appare sempre più fuorviante il discorso finalizzato al ribasso delle tariffe elettriche: non ci si può limitare agli eventuali e tutt’altro che certi minori oneri tariffari se poi, in realtà, si rinuncia al controllo «politico» su un bene essenziale come l’energia elettrica, non si tiene conto della fonte e dei modi di produzione e di distribuzione pur di avere energia a minor costo (ma quali saranno i costi ambientali, i rischi, l’incertezza dell’approvvigionamento, l’evoluzione dei costi per fonti di produzione – come il gas – strettamente legati alle variazioni dei corsi del petrolio?) La vittoria dei contrari alle privatizzazioni (Bellinzona, Nidwaldo, Vaud), secondo lei, dimostra un atteggiamento conservatore, in un certo senso egoistico, o si è voluto dire basta a determinate logiche economiche? A me sembra chiarissimo che certi incanti economici (quelli sì, veramente egoistici) stiano venendo meno e che il cittadino stia accorgendosi, dopo amare esperienze, che non si possono semplicemente dilapidare conquiste e beni preziosi, acquisiti in tanti anni di maturazione del senso civico, a favore dei soliti noti o di qualche megalomane lucroso manager che gioca sulla pelle degli altri. Stia forse anche accorgendosi che la mania del gigantesco, delle concentrazioni e delle fusioni in nome delle «economie di scala» e della concorrenza, dei terrorismi sulle famose «masse critiche» per sopravvivere, delle partecipazioni incrociate vendute come intelligenza finanziaria e antiveggenza manageriale, sono conseguenze paranoiche di un’economia che ha perso ogni senso dell’uomo e che alle volte può anche produrre catastrofi.

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12.10.01

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