Ad ogni azione economica o sociale ritenuta positiva, si accompagnano sempre effetti collaterali negativi. È come per le medicine: ti fanno bene e ti sollevano, ma non si può escludere che comportino anche qualche inconveniente. Negli ultimi tre decenni abbiamo eroso frontiere, ostacoli o intralci alla circolazione di merci, capitali, persone, innovazioni tecnologiche nei trasporti o nella comunicazione. Abbiamo ottenuto apertura generalizzata degli scambi, crescita economica, liberato flussi di informazioni, immagini, espressioni, rappresentazioni, culture. La frontiera è comunque rimasta una linea tra due Stati, tra identità, organizzazioni, leggi, culture diverse, anche quando si è cercata una unione geografica e una politica comune.


Da qualche tempo assistiamo a situazioni discordanti rispetto alla ormai trentennale esaltazione del libero scambio e al ritorno della nazione. Prevale ormai la tendenza a regole o priorità più condizionanti per i flussi migratori delle persone, a limiti al mercato (tasse doganali), al tecnicizzare i controlli (criteri tecnici più rigidi per l’accettazione di merci). La motivazione che muove tutto è la protezione di sé stessi, del paese, dei propri interessi. Che assume espressioni diverse: per alcuni è la perdita di identità per l’invasione di “estranei”, per altri è l’erosione della propria sovranità per decisioni imposte da “esterni”, per altri ancora è la continua perdita di sostanza economica o per la competitività resa insostenibile per costi ed esigenze qualitative interne o per la sopraffazione resa possibile da un libero scambio sleale e scriteriato. Non si può negare che in ognuna di queste espressioni, che inducono come reazione al protezionismo o ad atteggiamenti avversi agli “altri”, ci sia un elemento di veridicità. Che andrebbe analizzato, per risposte credibili.


C’è un fatto politico alquanto paradossale che andrebbe rilevato una volta tanto. I primi a rendere attenti sugli effetti collaterali negativi e sulla necessità di affrontarli subito, per la salvaguardia della dignità delle persone e dei lavoratori, furono la sinistra (in buona parte) e soprattutto i sindacati (sempre inflessibili anche nelle trattative in corso con l’Unione europea, tanto da esser visti come disfattisti). Altri che sbraitarono solo sull’avversione all’“altro” si son presi i dividendi elettorali del nulla di fatto politico ed economico.


In tutto questo discorso ci sono due realtà che si ignorano, forse perché ritenute estranee o minori. La prima può sembrare marginale, ma è una lezione. Non si spostano ed emigrano tra nazioni e continenti solo uomini, controllabili o rifiutabili, da alcuni persino classificati “parassiti sociali”, oppure merci sottoponibili a dazi o ricatti di mercato. Emigrano sempre più parassiti veri, dai nomi scientifici strani, che commerci e traffici hanno reso trionfanti, apolidi, irrefrenabili. Si accompagnano perlopiù a prodotti agricoli. Creano danni economici enormi (si calcola che a causa loro e delle malattie che comportano la redditività si riduca dal 40 al 20 per cento), perdite in biodiversità, danni agli ecosistemi. Sono una beffa-lezione alla pretesa onnipotenza economica, politica e tecnologica degli uomini.


La seconda l’abbiamo drammaticamente sotto gli occhi: sta nel fatto che il continuo degrado ambientale è diventato (con la “democrazia” che gli Stati Uniti hanno portato nel Vicino Oriente) uno dei fattori più determinanti delle migrazioni, che sposta ogni anno (dice l’Onu) 20 milioni di persone, in particolar modo da Sud a Nord. Ed è il futuro, anche se ci chiuderemo e se non ci muoveremo.

Pubblicato il 

26.06.19
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