Proiettili e bugie

A Ginevra, il 29 marzo scorso, Denise Chervet, segretaria generale del sindacato Comedia, e suo figlio vengono feriti dalla polizia in assetto antisommossa, mentre rientrano dalla manifestazione anti-Omc. Chervet finisce in ospedale e per alcuni giorni la polizia nega che i proiettili “marcatori” (contenenti pittura per individuare i dimostranti colpiti) siano stati sparati dalle loro fila. Il quotidiano “Le Temps”, qualche giorno dopo, rivela che la polizia ha avuto l’ordine di tacere proprio dal capo del Dipartimento di giustizia, polizia e sicurezza Micheline Spoerri. La ministra, a sua volta, rimanda le responsabilità della mancata informazione allo stesso comandante della polizia ginevrina Christian Coquoz il quale, sabato 5 aprile, rassegna le proprie dimissioni. Il Consiglio di Stato le accetta. Qui di seguito presentiamo l’intervista con la sindacalista Chervet raccolta a qualche giorno di distanza dal suo ferimento. «Sono sicura che ci sia la volontà di ridurre il diritto di manifestare il proprio dissenso. E in qualche modo ci stanno riuscendo. Questi episodi di violenza, aggressività e intimidazione scoraggiano le persone. Ed è ciò che le autorità vogliono: far sì che le persone pacifiche abbiano paura e non scendano in piazza. Vogliono aumentare il livello di tensione, esasperare le persone per poi reprimerle». Le ferite sono ancora ben visibili, il fianco e il viso segnato dal proiettile speciale con cui la polizia ha colpito sabato 29 marzo Denise Chervet, la segretaria centrale del sindacato Comedia, nonché ex-collaboratrice di area, al rientro dalla manifestazione anti-Omc organizzata a Ginevra. È stata ferita con quelle che chiamano munizioni speciali, proiettili di piccolo calibro, fabbricati con un materiale del tutto nuovo e che la polizia ha cominciato a sperimentare proprio in occasione della protesta ginevrina. Piccolo calibro ma con effetti devastanti. Proiettili composti di una combinazione di vetro, bismuto (metallo friabile) e pittura per contrassegnare in modo indelebile i manifestanti, secondo la polizia, violenti. E già si parla di “prove tecniche” di repressione in vista del G8 di Evian... «Mi hanno sparato da una distanza di cinque/sei metri», ricorda Denise. Un elemento, quello della distanza, sul quale si sta indagando. Per evitare effetti sproporzionati, infatti, la polizia potrebbe usare tali proiettili antisommossa ad una distanza di circa 30/40 metri. Al momento Denise ha ancora alcune schegge impiantate nella parte alta della guancia destra che i medici aspettano a rimuovere. C’è il rischio di toccare il nervo facciale e di provocare conseguentemente la paralisi di metà del viso. «Il dolore fisico è sopportabile – ci dice Denise Chervet – Piuttosto fino a ieri sera (2 aprile, ndr) ho avuto il timore che la polizia riuscisse ad insabbiare tutto facendomi passare per bugiarda. Già in un primo momento, il loro portavoce Eric Grandjean, intervistato da “Le Matin”, ha avuto la sfrontatezza di insinuare che io potessi essere stata vittima di uno sparo “amico”… come in Iraq. Trovo vergognosi non solo la calunnia nei miei confronti ma soprattutto il paragone macabramente ironico con l’immane tragedia di tutto un popolo». La sera del 2 aprile, pressata dalla stampa, la polizia comincia ad ammettere le proprie responsabilità nella gravissima vicenda. Micheline Spoerri, capo del Dipartimento di giustizia, polizia e sicurezza, nel corso della trasmissione radiofonica “Forum” (Radio Suisse Romande) riconosce che il colpo sia partito dalla polizia ma, nonostante la richiesta di indicazioni più chiare in merito, si mantiene sul vago. «Ciò che mi ha indignato – continua la sindacalista – è l’aver voluto spostare l’attenzione “sulla tensione a cui sono sottoposti i poliziotti che hanno il difficile compito di individuare i manifestanti violenti da quelli che non lo sono”... Un modo per gettare fumo negli occhi e giustificare maldestramente l’operato violento della polizia. Allo stesso modo, “La Tribune de Geneve” ha cavalcato questa teoria dicendo che sono una manifestante facinorosa». Non solo Denise Chervet è riconosciuta come una persona pacata ma, come testimoniano stampa e partecipanti, la stessa manifestazione si è svolta pacificamente. «A cosa mirano – osserva Denise Chervet – è evidente: a scoraggiare il dissenso pubblico. Le autorità lo hanno dimostrato chiaramente a Davos e a Berna dove la polizia ha lanciato in mezzo alla folla di manifestanti gas lacrimogeni. Sembra inoltre che le autorità siano intenzionate a “contingentare” le manifestazioni ad un massimo di dodici l’anno». Un pericolo reale, questo, tant’è che, il 4 aprile, 68 organizzazioni – fra sindacati, partiti di area socialista, verdi e associazioni di aiuto allo sviluppo – hanno pubblicato un appello in cui si chiede di difendere il diritto di manifestare liberamente così com’è garantito dalla Costituzione. «Si vuole indebolire il dissenso fino a neutralizzarlo», riflette Chervet. «Credo che il mio ruolo professionale abbia pesato molto in questa vicenda – ammette – e credo anche che se il poliziotto avesse saputo chi ero si sarebbe guardato bene dallo sparare. So che molti manifestanti pur pestati dalla polizia spesso non sporgono denuncia per paura di ritorsioni. Nel mio caso, ho avuto dalla mia il sostegno della stampa che se n’è occupata ampiamente. E in più c’erano testimoni (e altri se ne stanno aggiungendo dopo l’appello di Comedia) con tanto di foto e filmati che fungono da prove. Ma quanti altri manifestanti che hanno avuto il coraggio di denunciare le violenze subite hanno avuto giustizia?» Dunque fondamentale è stato il ruolo della stampa (vedasi riquadro) che ha smascherato il tentativo di mettere tutto a tacere. «Quando ho fatto la denuncia - afferma - e ho visto i maldestri tentativi della polizia di sconfessarmi, ho temuto si riuscisse ancora una volta a soffocare tutto nel silenzio. Non voglio però che si faccia di me un’eroina. Ci sono altri manifestanti che hanno sporto denuncia e che sono stati pestati o maltrattati. Vorrei che il mio caso servisse a far luce su questi continui atti di repressione nei confronti di chi vuole manifestare liberamente il proprio dissenso. Certo, con le dimissioni del comandante della polizia ginevrina, Christian Coquoz, qualcosa si è smosso ma è importante che l’inchiesta vada avanti. Perché si arresti un disegno sempre più inquietante che vuole che ovunque si manifesti il dissenso, si reagisca secondo la parola d’ordine “intimidire e reprimere”. Dobbiamo rispondere a queste provocazioni denunciandole, smascherandole e continuando a scendere in piazza sempre più numerosi. A dispetto dell’umana e comprensibile paura». Dal tiro al ritiro Una manifestazione tranquilla che non lasciava presagire il colpo di coda repressivo della polizia ginevrina. I problemi per Denise Chervet, suo figlio e altri manifestanti, sono cominciati proprio fuori dal corteo, sulla via del ritorno a casa. La sindacalista, infatti, al momento del ferimento, si trovava con suo figlio sul marciapiede della Stazione di Cornavin (Ginevra). «Avevamo deciso di andarcene via un po’ prima – precisa – perché abitiamo lontano da Ginevra. Vicino alla stazione, abbiamo visto un gruppo di poliziotti malmenare una giovane dimostrante. Ci siamo avvicinati per chiedere spiegazioni quando uno di loro ha buttato a terra mio figlio. Lui, per reazione, ha agitato la sua bibita gasata spruzzando l’agente che, imbufalito, gli ha inferto un colpo violento ferendolo alla schiena. Io ero a qualche metro di distanza quando una donna mi ha fatto notare che mio figlio era a terra ferito. Rabbia, incredulità, paura per mio figlio: qualsiasi genitore sarebbe sopraffatto da quei sentimenti. Io presa dalla disperazione ho lanciato contro di loro la bottiglietta che avevo in mano (di una bevanda, ndr) quando, per un attimo e con la coda dell’occhio, ho visto un poliziotto che prendeva la mira. Pur ferita e dolorante continuavo a pensare a mio figlio: temevo fosse grave». All’ospedale appurano che la ferita del ragazzo non è grave ma gli danno quattro punti di sutura. Denise invece rischia conseguenze più serie. In seguito la polizia, sotto i riflettori dei media e dell’opinione pubblica, dichiara di aver avviato un’inchiesta. E qualche gola profonda interna al corpo ammette che ci sono «squadre d’intervento che dispongono di troppa libertà d’azione» e che «non c’è più controllo» (Le Temps, 03.04.03). Ancora qualche giorno di “chiarimenti”, smentite da parte della polizia e lo scandalo scoppia. Sempre dalle colonne del quotidiano “Le Temps” (05.04.03) Micheline Spoerri, capo del Dipartimento di giustizia, polizia e sicurezza ammette che già da lunedì 31 marzo era a conoscenza del ferimento di «una manifestante anti-Omc» e di aver costretto la polizia a tacere perché «tutto era ancora troppo confuso». Riguardo poi il permesso per la polizia di usare o meno i proiettili incriminati, la Consigliera di Stato rimanda le responsabilità al capo della polizia Christian Coquoz. «A ciascuno le proprie responsabilità, le proprie competenze di campo e di comando», ha dichiarato. «L’autorità di polizia deve assumere il suo ruolo fin dall’inizio e decidere sull’opportunità o meno di utilizzare questo proiettile». La crisi istituzionale è così innescata e il capo della polizia Christian Coquoz, sentendosi sfiduciato dalla Spoerri, domenica 6 aprile rassegna le sue dimissioni prontamente accettate dal Consiglio di Stato, riunitosi per una seduta straordinaria la mattina dello stesso giorno. mapi

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11.04.2003 01:30
Maria Pirisi