Tre informazioni apparse in questi giorni hanno sicuramente attirato l’attenzione anche di chi trova ostica la finanza. L’una è sembrata farlocca, ma non lo è. La Borsa di Hong Kong, nonostante ciò che sta capitando da una parte e dall’altra (Brexit), offre 39 miliardi di dollari per acquistare il London Stock Exchange, la Borsa di Londra. Non avverrà, titolano i giornali inglesi; è per noi un simbolo, come la guida a sinistra o i bus a due piani. I finanzieri sono più cauti: niente è impossibile, soprattutto se appare inevitabile. Due anni fa non c’è forse già stato il tentativo di fusionare la Deutsche Börse e la Borsa di Londra? Erano molto più incompatibili (Hong Kong è Cina, d’accordo, ma è finanziariamente inglese). Quella fusione “europea” fu bloccata dalla Commissione di Bruxelles per motivi di concorrenza. A Zurigo ringraziarono persino gli Udc eurofobi. Questi tentativi capitano per una ragione: le Borse sono grosse imprese di ingegneria informatica, costrette a far volume per essere produttive e non sommerse da Wall Street. Decidono i regolatori finanziari; gli algoritmi impongono le scelte; bastano alcuni esperti che costano, diventano superflue molte persone. Saranno quindi sempre in pochi a condurre il gioco finanziario del mondo e a decidere le sorti di tutti. Di questa sorta di totalitarismo non si parla. Neppure se regolatori e algoritmi non sembrano capaci di evitarci un’altra crisi che è nell’aria (vedi ultimi dati Ocse). La seconda informazione sembra la controprova della precedente. “Continua l’ecatombe sociale nella finanza europea”: titola un quotidiano finanziario inglese. La notizia è derivata da un rapporto della Banca centrale europea (Bce): il sistema bancario europeo ha perso in un solo anno 70mila posti di lavoro; oggi gli effettivi sono al punto più basso di vent’anni fa, ma tutte le grandi banche annunciano ancora tagli del 20 per cento. Lapidario il commento dell’analista della Bce: «Il settore bancario sta vivendo ciò che ha vissuto la siderurgia». Al ticinese suonano alle orecchie le vicende della Monteforno, asse portante dell’industria, e pensa al settore bancario, asse portante di tutta l’economia. E in parte a ciò che sta già capitando. La terza informazione ha doppia stravaganza: per come viene formulata, perché la Svizzera la pratica. Le banche centrali-nazionali stanno imitando il mercato del football (dice la famosa agenzia Bloomberg). Si contendono a suon di milioni gli amministratori senza più badare alla nazionalità: un canadese alla Banca d’Inghilterra, un britannico a quella irlandese, un americano a quella israeliana e via dicendo. Le banche centrali, che fanno la politica monetaria, seguono ciò che grosse banche o grandi imprese fanno da tempo, cercano i migliori dirigenti stranieri. Presidente del Credito Svizzero è un africano-ivoriano, succeduto a sua volta ad un americano, fatto inimmaginabile ancora negli anni Ottanta in cui per accedere a un posto del genere dovevi essere svizzero, preferibilmente svizzero-tedesco e liberale-radicale, graduato nell’esercito. Negli anni 80 avevamo ancora in Parlamento 42 amministratori o direttori generali delle 110 maggiori imprese. Sono scesi a una decina. Forse perché si addomestica meglio la politica fuori dal Parlamento e perché uno straniero non può ancora essere eletto in Parlamento? O forse perché il solo mercato svizzero non può rappresentare la colonna vertebrale di una grande banca o di una multinazionale e deve ricorrere a “managers” stranieri per darsi una immagine internazionale? L’economia si fa quindi un baffo degli alfieri dei “prima i nostri” e dei vermifughi contro i vermi che si mangiano la mela di Tell. Anche se il potere economico cammina quasi sempre di pari passo con quelli quando si trova di fronte i lavoratori, che vorrebbero qualcosa di più. |