In aprile hanno cominciato a raccogliere i soldi per finanziarlo. Fra luglio e agosto l’hanno girato, a settembre l’hanno montato e il 20 ottobre ha avuto la prima al cinema Anteo di Milano, con tanto di ressa al botteghino. Il film è “Il vangelo secondo Precario”, parla delle nuove modalità di organizzare il lavoro basate sulla negazione dei diritti dei lavoratori e sarà proiettato alla presenza del regista Stefano Obino domenica mattina alle 10 all’Espocentro di Bellinzona nell’ambito di Castellinaria, il festival internazionale del cinema giovane giunto quest’anno alla diciottesima edizione. Il film racconta in altrettanti episodi le peripezie nel mondo del precariato di quattro personaggi: Dora, stagista televisiva cui rubano le idee; Franco, aspirante scrittore che per campare fa l’agente finanziario; Mario, avvocato in attesa di diventare titolare di uno studio legale; Marta, che fa indagini per un istituto demoscopico. Ad unire le loro storie c’è Sandro Precario, un pugile finito per errore in paradiso 30 anni prima della sua ora, a cui San Pietro affida il compito di evadere le richieste di lavoro più pressanti. In questa intervista il regista Obino spiega i contenuti del film, ma anche le originali modalità di scrittura e di produzione. “Il vangelo secondo Precario” è originale già per le modalità di produzione: Stefano Obino, ci può spiegare come avete raccolto il budget? Tutto nasce dal sito internet di Produzioni dal basso, che ha elaborato un sistema di produzione basato sulle sottoscrizioni. In pratica chi vuole realizzare un’opera ne stabilisce il budget, lo suddivide in sottoscrizioni e le mette in vendita: quando si è raggiunto il budget si procede con la realizzazione dell’opera. Nel nostro caso erano 40 mila euro suddivisi in 4 mila sottoscrizioni: ogni versamento di 10 euro dava diritto al dvd omaggio del film e al nome sui titoli di coda. Hanno sottoscritto sia singoli che, grazie al buon riscontro avuto nei media, anche soggetti legati al mondo del lavoro come Cgil, Arci, Acli e così via. La presenza di un sindacato forte come la Cgil fra i sottoscrittori non vi ha condizionato? Come valeva per tutti i sottoscrittori, anche la Cgil ha sottoscritto nella piena autonomia artistica ed espressiva degli autori del film. Nella pratica poi loro ci hanno aiutato anche illustrandoci alcune realtà che direttamente conoscono. Va detto che la Cgil, per aver firmato la legge Treu, è accusata di essere a sua volta concausa del precariato, ma d’altro canto è così capillarmente presente sul territorio che per i precari è spesso l’unica speranza di salvezza possibile. Noi abbiamo cercato di estraniarci da queste polemiche, anche perché idee e sostegno li abbiamo ricevuti sia dalla Cgil che da chi la critica. Anche per la sceneggiatura avete cercato collaborazione dal basso: in che modo? Noi artisti, specialmente se giovani, il precariato lo viviamo ogni giorno sulla nostra pelle (io stesso sono passato dal più classico dei call center per sbarcare il lunario). Ci siamo però subito resi conto che un tema come quello del precariato non poteva essere raccontato soltanto a partire dalle nostre esperienze o idee. Tramite il nostro sito internet abbiamo quindi chiesto la collaborazione di chiunque volesse raccontarci la propria esperienza. Sono così arrivati numerosi mail che contenevano storie complete, episodi vissuti in prima persona o sentiti riferire da altri o semplici lamentele e riflessioni. Tutto questo materiale è servito sia per la sceneggiatura che per avere un riscontro forte su qual è la situazione effettiva attuale. Veniamo al tema: a giudicare dal vostro film a rischio di precariato oggi sono anche molte di quelle persone che solo pochi anni fa sarebbero state destinate per la loro formazione ad una luminosa e sicura carriera. Uno dei nostri obiettivi era proprio porre l’accento anche su questo particolare aspetto. Nel cinema italiano se si parla di precariato si fa un documentario e si mostrano in genere situazioni di grande ed evidente sfruttamento, quale può essere un call center situato nel sud. Noi avevamo invece la necessità, attraverso una fiction nel genere della commedia agrodolce, di mostrare che il fenomeno del precariato colpisce oggi molte più persone di quelle che si definiscono precarie. Se in passato il consiglio dei genitori era di farsi una laurea che poi il lavoro sicuro lo si sarebbe trovato, oggi questo non avviene né con la laurea, né con il master. Viviamo una situazione di totale perdita dei diritti sul posto di lavoro, per cui il precariato è ovunque. D’altro canto c’è una dicotomia bruciante fra chi come me ha 30 anni e ha seguito un certo processo formativo da un lato e il mondo del lavoro dall’altro: il lavoro è così cambiato in pochi anni che oggi ci tocca considerare del tutto inadeguato il percorso di formazione seguito dai miei coetanei. Che si sentono ingannati e incapaci, a partire dal proprio quotidiano, di elaborare una prospettiva che non sia il lamento. Il cinema italiano di questi tempi pare poco propenso a confrontarsi con il tema del lavoro… In effetti dopo le stagioni del neorealismo prima e dei vari Elio Petri e Pietro Germi negli anni ’70 poi, ai quali noi cerchiamo comunque di ispirarci, è vero che il tema è stato ampiamente trascurato. Purtroppo in Italia si è perso il contatto fra cinema e dimensione sociale, benché la storia del nostro cinema dimostri che i suoi momenti migliori sono proprio stati quelli in cui più s’è avvicinato a questi temi. Espressivamente vi riconoscete nel cinema spontaneista? Il film in effetti è basato molto sull’improvvisazione e la spontaneità. Molte scene sono state girate senza un testo su cui basarci, in altre la sceneggiatura è stata completamente messa da parte, questo anche perché spesso gli attori si sono sentiti molto coinvolti e hanno quindi rielaborato testo e significati in base alla loro esperienza. D’altro canto anche regia, riprese e montaggio sono centrati sull’obiettivo di prestare il massimo di attenzione a ciò che avviene prima della macchina da presa, cioè all’azione drammatica, al testo e alla recitazione. Infatti ad esempio il montaggio non è lineare ma è molto ritmico e spezzettato con diversi pianisequenza che si intercalano fra di loro. L’idea era di fare un film rude, duro, poco patinato, quindi nelle intenzioni più forte. Una regia che ricorda un von Trier, i Dardenne o un Greengrass: camera a mano e nessun rispetto per le regole del montaggio. Infatti nessuno se ne accorge, ma nella miglior tradizione del cinema indipendente compaiono pure un cameraman e un microfono… In una sua recensione il direttore di Castellinaria Giancarlo Zappoli definisce inutile il personaggio del pugile, che appesantirebbe rallentandolo il film. Perché ce l’avete messo? È una critica che ci hanno fatto persone molto impegnate nell’ambiente cinematografico e che quindi hanno un’abitudine molto alta alla visione di film. In realtà credo che in uno spettatore medio il personaggio di Sandro Precario e il suo percorso aiutino a legare e seguire la storia. In definitiva è uno dei personaggi che colpiscono di più e che vengono più ricordati. “Il vangelo secondo Precario” ha come obiettivo la sensibilizzazione sul tema: avere un personaggio fuori dalle righe che interagisce con i personaggi del dramma dando soluzioni completamente sprovvedute ai loro problemi aiuta anche a vedere alcuni dei paradossi che il precariato crea. Era quindi necessario se volevamo parlare ad un pubblico ampio. Ne abbiamo discusso molto al montaggio, e in definitiva credo che abbiamo fatto la scelta giusta: sono dell’idea che non si dovesse essere troppo elitari nella modalità di porgere la storia. Avete definito le modalità di distribuzione del film? Il film ha creato un certo interesse, ma siamo prudenti perché vorremmo rimanesse un oggetto divulgabile il più possibile. Vorremmo quindi capire se è più utile ricorrere ai consueti canali di distribuzione o se non sia meglio piuttosto puntare ad una distribuzione dal basso, organizzata da noi ma che saprebbe forse giungere meglio al pubblico che il film vuole trovare. Il film passerà a Castellinaria domenica mattina alle 10 all’Espocentro: in una frase, perché vale la pena uscire di casa per andare a vederlo? Perché è un film necessario, cosa non ovvia negli ultimi tempi in Italia.

Pubblicato il 

18.11.05

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