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«Porto il rap nelle scuole per aiutare giovani troppo soli»

Il leader degli Assalti Frontali, che si esibiranno alla Festa  del 1° Maggio a Bellinzona, spiega come la loro musica sia diventata uno strumento per stimolare ed educare alla cittadinanza

Il prossimo Primo Maggio a Bellinzona si esibiranno gli Assalti Frontali, storico gruppo hip hop italiano. Un’occasione per intervistare Luca Mascini, alias Militant A, frontman di una band da sempre impegnata politicamente e artisticamente. Da anni il rapper tiene dei laboratori nelle scuole di tutta Italia per cercare, attraverso il linguaggio del rap, di stimolare bambine e bambini, ragazze e ragazzi a esprimere i propri sentimenti e a sentirsi parte attiva di una comunità. Un’educazione alla cittadinanza che parte da lontano e sfida il crescente individualismo.

 

Luca Mascini, quale è il contesto in cui è iniziata la sua carriera di artista militante?

Sono cresciuto a Roma in un ambiente molto stimolante da un punto di vista politico, culturale e intellettuale. Erano gli anni Ottanta e vi era un grande fermento di movimenti studenteschi dei quali facevo parte. C’erano occupazioni nelle scuole e nelle università e si dava grande importanza alla discussione e alla partecipazione democratica. Uno dei grandi temi era l’opposizione all’entrata dei capitali privati nell’istruzione pubblica. Ma poi vi erano anche delle grandi campagne internazionaliste o battaglie come il referendum contro il nucleare. Vi era quindi grande effervescenza di pensiero che ha contribuito alla mia formazione.

 

Da un punto di vista musicale, lei è stato uno dei primi giovani artisti italiani a fare rap in italiano. Cosa la appassionava di questa musica, che all’epoca era ancora molto di nicchia?

In quegli anni il movimento hip hop stava nascendo a New York, in particolare nel Bronx. Era un quartiere malfamato, un ghetto da dove non si usciva perché vi era tutta una serie di sbarre razziali ed economiche che lo impediva. Poi sono arrivati questi ragazzi che con l’arte, con la musica, sono riusciti a rompere queste sbarre, ad uscire dal ghetto e a farsi conoscere in tutto il mondo. Questa cosa mi ha incantato. Sia per l’energia che sprigionava questa nuova forma d’arte, sia per questa storia di riscatto sociale. Me ne sono innamorato al punto che dopo gli studi ho fatto dei viaggi in questi luoghi. Poi, quando sono tornato, mi sono detto che non solo bisognava portare l’hip hop in Italia, ma che bisognava farlo con le peculiarità italiane. A partire dai testi che dovevano raccontare le nostre storie e ci permettevano di portare avanti anche il nostro impegno politico.

 

Oggi il rap è diventato una musica commerciale, che spesso si fa portatore di valori poco condivisibili come quelli del denaro o della violenza. Lei come vive questo contrasto?

Da una parte sono contento che il rap si sia diffuso. In fondo è quello che volevamo. D’altra parte è vero che l’industria oggi incentiva questo tipo di linguaggio che inculca nei giovani artisti il miraggio che per farsi strada e guadagnare soldi occorra sottostare a certi messaggi che creano attenzione commerciale. Questo fatto è un po’ deprimente perché ormai si pensa che per fare rap ci vogliano testi violenti o misogini. Come se fosse una cosa già precompilata, che va fatta in questo modo per avere più possibilità e per scalare le classifiche. Il rap è però tutt’altro: è espressione dei sentimenti che ognuno si porta dentro. È interessante notare che se ci vai a parlare con questi ragazzi, non pensano nemmeno le cose che dicono e appaiono diversi da come vogliono apparire. La cosa triste è che si sentano in dovere di farlo.

 

A suo avviso si tratta di un problema generalizzato della nostra società, una sorta di lacuna culturale?

La nostra filosofia di cercare di voler cambiare le cose, anche con la musica, forse ha meno appeal. Fino all’inizio degli anni Duemila tutti i rapper passavano dai centri sociali, da quello che è successo a Genova nel 2001. Era imprescindibile, ma oggi non è più così. C’è stata una grossa affermazione dell’individualismo e del sentimento prevalente nelle nuove generazioni del fatto che tanto non si possa cambiare niente. E che quindi l’unica cosa che resta da fare in questa società è quella di essere consumatori di alto livello. Così nasce però la solitudine, la tristezza e l’infelicità. Noi però non molliamo e continuiamo a portare avanti le nostre idee, convinti che solo la lotta e la partecipazione portano senso alla vita e quindi felicità.

 

La Palestina era già un vostro tema trent’anni fa e oggi è presente anche nei suoi testi più recenti. In che modo come artista sente l’esigenza di dovere affrontare questo tema e perché non sono in tanti gli artisti a denunciare quanto avviene a Gaza?

Per me vi è una sorta di esigenza vitale nel dover prendere posizione. Non avrei mai potuto salire su un palco a cantare se non avessi tematizzato quanto sta succedendo adesso in Palestina. Penso che i rapper e gli artisti in generale debbano fare questo: la musica e la cultura devono sempre raccontare il proprio tempo e cercare di influenzarlo. Oggi non si parla di quello che succede nel mondo, a Gaza, della guerra, come se il rap e la musica dovesse essere solo intrattenimento e distrazione. E questo mi provoca dispiacere. Se poi parli con i giovani dei quartieri, con chi fa musica, sono tutti indignati per quello che sta succedendo, ma ciò non viene detto nelle canzoni. Pensano forse che trattare determinati temi ti chiuda delle porte o semplicemente non si possa fare. Io lo faccio perché ne sento l’esigenza, ma anche per cercare di dare il coraggio ad altri più giovani di farlo.

 

Lei da anni va nelle scuole e svolge dei laboratori di rap con le classi. Come è nata questa idea?

Un giorno la visionaria dirigente della scuola (Simonetta Salacone, a cui è dedicata la canzone Simonetta, ndr) dove andava la mia prima figlia mi ha chiesto di venire a fare rap dentro all’istituto. Non a fare un concerto, ma a fare didattica con il rap. Il primo lavoro che abbiamo fatto è stato sulla costituzione. Un lavoro che ancora oggi porto nelle classi perché se fai le rime con gli articoli della costituzione italiana ti accorgi che questo testo fondamentale parla di lavoro, di protezione della natura, di libertà di espressione e del ripudio alla guerra. Temi di cui se oggi ne parli quasi quasi ti mandano i carabinieri a casa. 

 

Come funzionano questi laboratori?

Sono stato un po’ in tutta Italia e anche in Libano dove ho tenuto i laboratori in francese, la lingua di mia madre. Io non insegno a rappare, perché quello si impara per strada. I miei laboratori sono un percorso di comunità, di inclusione, di crescita. Di solito faccio cinque incontri durante i quali scriviamo dei testi e delle canzoni, cercando di trattare dei temi vicini alla classe e di scavare nella loro poesia. All’ultimo incontro presentiamo la canzone davanti a tutta la scuola.

 

Quale è la risposta delle ragazze e dei ragazzi?

A loro il rap piace e penso che questi momenti si imprimano nel loro cuore. La cosa importante è che queste lezioni fanno pensare loro alla scuola in modo diverso. Perché tanti oggi odiano la scuola. E questo è un grave problema, perché la scuola pubblica, laica e solidale è una conquista collettiva di duecento anni di lotte che permette a tutte e tutti di ambire a qualcosa nella vita. Occorre pensare che la scuola è un’occasione per le ragazze e i ragazzi di ogni estrazione sociale. E penso che il rap possa aiutare in questa presa di coscienza, anche perché usa un linguaggio che rompe le barricate.

 

Quale è la situazione nelle periferie italiane? Quali sono i principali disagi e come può il rap accendere delle scintille positive?

Quello che mi colpisce è proprio questo disincanto completo, una sorta di desolazione che ritrovo in tutte le periferie dove vado. Vi è molto individualismo, molta solitudine e una generale sensazione di abbandono da parte delle istituzioni che si presentano magari soltanto con la polizia, con la forza. Questo serve solo al consenso di chi governa. Penso che invece il rap e la musica in generale possano provocare delle scintille di speranza e aggregazione e aiutare i giovani a sentirsi parte di una comunità.

 

Lei si definisce arteducatore e non educatore. Una differenza importante…

Penso che non occorra, come fanno in genere gli educatori, dire agli altri come si devono comportare. Io con l’arte cerco di tirare fuori il fuoco da allieve e allievi, provo ad accendere quelle scintille che permettono loro di sentirsi cittadini, parte di una comunità e che serve a farli diventare attivi. Che è poi quello che ti gratifica, ti fa stare bene e ti rende felice. L’arte emancipa dal vuoto, ci fa esprimere e volare.

Pubblicato il

29.04.2025 09:52
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