Vendita

Il contratto di Olga* indicava 17 ore la settimana per una paga mensile di 1.100 franchi netti. Lei non lo sapeva, ma di vero c’era solo la paga. Nel periodo che ha resistito, ha puntualmente lavorato il doppio, se non il triplo delle ore settimanalmente previste. La titolare qualche dubbio avrebbe potuto averlo. Era una questione matematica. Se hai tre dipendenti per tre negozi in cui si vende abbigliamento per bambini nei centri commerciali di Sant’Antonino, Grancia e Serfontana, aperti sei giorni la settimana, è matematicamente impossibile riuscire a coprire le presenze senza infrangere la legge.

A poco servirà Barbara*, la quarta dipendente assunta al 50% con funzioni di jolly nel supplire Olga e colleghe nei turni liberi, le assenze e le vacanze. Coprire le 180 ore di apertura settimanali delle tre filiali anche con quattro impiegate assunte al 100%, equivale a 45 ore a dipendente. Missione impossibile tanto più che nessuna di loro era assunta a tempo pieno. Sarà per questo che nei contratti vi era la dicitura: «La dipendente prende atto che l’orario di lavoro è flessibile (da lunedì al sabato) e potrà essere adattato e aumentato a seconda delle esigenze della Società». La famigerata flessibilità di piegarsi all’esigenza della società. E infatti l’orario di Olga e colleghe aumentava ripetutamente a dismisura.


L’alternativa era che lavorassero la titolare o familiari nei negozi per poter garantire il rispetto delle ore pattuite. Ma visto l’incredibile monte ore accumulato da Olga e colleghe, si potrebbe desumere che la titolare non sostituisse, perlomeno a sufficienza, le dipendenti in negozio. Prendiamo lo scorso luglio, mese in cui Olga ha stabilito il personale record di 265 ore di lavoro mensili. 61 ore la settimana di media.


Oriana* invece, pur non riuscendo a eguagliare il record di Olga, a giusto titolo potrebbe vantarsi di essere una maratoneta, una specialista della lunga distanza. Davanti alle 230 ore di media lavorativa mensile in sette mesi di fila di Oriana, persino Aleksej Stachanov si sarebbe inchinato. Purtroppo, Oriana ha pagato ad alto prezzo la prestazione non voluta. All’ottavo mese, corpo e mente stremati hanno dato forfait.


Stando alle informazioni raccolte dal sindacato, le dipendenti non potendo lasciare sguarnito il negozio, non avrebbero potuto usufruire nemmeno del diritto alla pausa pranzo. Affinché sia fatta chiarezza, il sindacato Unia ha già inoltrato la documentazione e le testimonianze raccolte all’Ispettorato del lavoro per le opportune verifiche ed eventuali decisioni. Il responso dovrebbe arrivare a breve.


A differenza di Olga, Oriana era stata assunta al 95% per poco più di tremila franchi lordi, in ossequio all’importo stabilito dal Ccl vendita cantonale barattato in cambio di una nuova legge cantonale che estendesse gli orari di apertura.

E c’è chi vuole di più
Una legge entrata in vigore meno di due anni fa che la maggioranza liberal-leghista in Gran Consiglio ha già voluto modificare lo scorso novembre, allungando ancor di più orari e domeniche di aperture. Non solo, i deputati hanno raddoppiato il limite di superficie del negozio (portato a 400 metri quadrati) che consente di aprire sette giorni su sette, festivi compresi, nelle località definite da decreto governativo turistiche (circa i due terzi dei comuni ticinesi) per un totale di undici mesi l’anno.


«Lavorare significa poter lavorare» è il titolo dell’iniziativa parlamentare firmata da Alessandro Speziali (presidente Plr) che ha portato alle modifiche di legge. Per Olga, Oriana e Barbara, quel motto si declina in «lavorare significa costretta a lavorare». Per le dipendenti, dicono i sindacalisti, di libertà ve n’è ben poca.

 


Dopo decenni di falso ideologico nell’impiego positivistico del termine “flessibilità”, qui saremmo al concetto di libertà distorto. Già con la precedente legge il negoziante era libero di aprire quando desiderava, domeniche e festivi compresi. La legge gli impediva d’impiegare i dipendenti, non lui medesimo. Poteva lavorare, non far lavorare. Una differenza per nulla sottile.


Nel rapporto di maggioranza della commissione favorevole alle modifiche alla legge vendita, si sostiene che negozi aperti più a lungo genererebbero nuovi impieghi. Lo dicono parlando di studi di cui non si conosce la fonte e nemmeno il titolo. È falso, replicano i sindacalisti, rendendo attenti i deputati che i nuovi orari sarebbero andati ad aggravare un contesto professionale già compromesso. 

 

Lo avevano evidenziato rispondendo alla Commissione economia e lavoro nella fase consultiva dell’iniziativa Speziali. Stilando un bilancio dei due anni di orari prolungati, Unia scrive: «Le maestranze hanno pagato queste estensioni a caro prezzo sia per quanto riguarda le ripercussioni sulla loro vita privata sia per il netto peggioramento delle loro condizioni di lavoro. Sono aumentati i contratti a tempo parziale e i contratti su chiamata senza ore garantite; di conseguenza è aumentata anche la piaga del frazionamento della giornata lavorativa. I tempi parziali vengono così utilizzati come strumento di precarizzazione che scarica sul lavoratore e sulla lavoratrice il rischio azienda».


Insomma, avvertono i sindacati, altro che creare nuovi posti. Si andrà a peggiorare una situazione già grave. Per supplire al bisogno di personale generato dall’estensione oraria, si ricorre semplicemente alla decantata flessibilità, precisano i sindacati. Nel migliore dei casi, le dipendenti si vedranno spalmare il tempo di lavoro sull’arco dei giorni di apertura. Nei peggiori, saranno impiegate tutte le sessanta ore settimanali come Olga e colleghe.


Alla segnalazione del sindacato, la maggioranza dei deputati ha preferito fare orecchie da mercante, approvando le nuove aperture. I sindacati Unia e Ocst hanno lanciato un referendum abrogativo la cui raccolta firme si concluderà poco prima di Natale.

 

Delle lettrici potrebbero obiettare che la denuncia inoltrata da Unia all’Ispettorato del lavoro dimostri quanto il sistema funzioni, sia in grado di reagire e sanzionare. Non è così, rispondono i sindacalisti. Quanto accaduto a Olga e colleghe è probabilmente un caso limite per intensità oraria, ma la denuncia degli abusi è altrettanto rara per le evidenti paure di ritorsione. «Il vero problema è la debole tutela dei dipendenti nel caso denuncino dei gravi abusi sul posto di lavoro. Non è un caso che i delegati nazionali di Unia abbiano chiesto quale priorità all’Unione sindacale svizzera di lanciare un’iniziativa popolare per proteggere i lavoratori dai licenziamenti abusivi di ritorsione» spiega Danilo Moro, sindacalista di Unia.


«Nessuna legge viene più infranta di quella del lavoro» aveva affermato il professor Thomas Geiser, una delle massime autorità elvetiche di diritto del lavoro e giudice presso il Tribunale federale. Geiser aveva così commentato un documento interno di Coop pubblicato dal Blick due anni fa. In sintesi, nelle filiali bernesi del gigante al dettaglio la legge era stata infranta 475 volte in un mese. Coop, a cui va dato atto di essersi interrogata su quante infrazioni commettesse, ha confermato la veridicità del documento.


Dal documento si evinceva che l’infrazione di gran lunga più frequente era lo sforamento delle ore di lavoro legalmente consentite. In particolare, ciò avveniva in due periodi dell’anno. Durante le ferie estive, quando parte del personale va in vacanza e quello rimasto la sostituisce, e nel periodo di frenesia consumistica degli acquisti natalizi. Se l’azienda leader nella vendita al dettaglio del paese con 90mila dipendenti e 30 miliardi di franchi annui di fatturato non riesce a rispettare la legge perché a corto di personale, figurarsi un piccolo o medio negoziante. Se le ore di apertura del negozio si allungano, pure il problema si allunga altrettanto.


Ora il caso di Olga e colleghe è nelle mani dell’Ispettorato del lavoro, chiamato a verificare le denunce e a decidere le eventuali sanzioni. Già, quali sono le sanzioni previste in caso d’infrazione alla legge sul lavoro? Alla prima violazione, vi è un richiamo ai sensi dell’articolo 51 cpv. 1 LL. In caso di recidiva, è previsto un ulteriore richiamo, attraverso l’emissione di una decisione formale, sotto comminatoria della pena prevista dal Codice penale qualora l’azienda rifiutasse di conformarsi alla LL. In caso di ulteriore recidiva vi è la denuncia al Ministero pubblico per il perseguimento penale dell’infrazione commessa. A memoria, assicurano le fonti sindacali interpellate, negli anni non è mai stata inoltrata alcuna denuncia penale al Ministero pubblico per violazioni sul genere di quelle denunciate da Oriana e colleghe. Sarà perché gli ammonimenti sono stati utili o vi sono altre ragioni? A voi lettrici la risposta.


La testimonianza: «O scappi o scoppi»
«Non hai più vita. O meglio, la tua vita si riduce a lavorare nel negozio e dormire nel tuo letto. L’unico intermezzo nella tua giornata è il tempo di viaggio casa-lavoro. Di vita sociale o di coppia, neanche a parlarne. Non avevo neanche la libertà di avere due settimane di ferie quando volevo. Ti erano imposte anche quelle». Così racconta ad area una delle commesse dei tre negozi.

 

Le chiediamo come sia fisicamente e mentalmente reggere questi ritmi. «Ho sentito il colpo. Non lavori in miniera, va bene. Ma gestire un negozio da sola occupandosi di tutte le mansioni, è comunque impegnativo. Se lo fai dieci ore al giorno, sei giorni la settimana, alla fine scoppi. O scappi se hai la fortuna di trovare di meglio».

 

Le chiediamo ancora perché una persona accetti queste condizioni. «Lo fai perché hai bisogno di lavorare. In giro non c’è molto, stringi i denti e lo fai. Il momento peggiore è stato dicembre dello scorso anno, quando i negozi sono aperti ininterrottamente tutti i giorni con le domeniche prenatalizie. Quel mese abbiamo lavorato tutti i giorni di fila fino alle 17 del 24 dicembre. A Natale eravamo tutte malate perché sfinite».

* nomi di fantasia

Pubblicato il 

15.12.22
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