Pomigliano, il plebiscito non c'è

L'amministratore delegato Fiat Sergio Marchionne è irritato per il risultato del voto a Pomigliano.

Si può capire, aveva chiesto un plebiscito sul testo di un accordo che solo la Fiom si rifiuta di firmare, denunciandone i contenuti che violano, anzi cancellano, i contratti nazionali di lavoro, la Costituzione italiana e la carta di Nizza: via il diritto di sciopero, rivoluzionamento dell'organizzazione del lavoro con l'introduzione dei 18 turni settimanali, spostamento della pausa mensa – ridotta da 40 a 30 minuti – a fine turno (dopo 7 ore e mezza di catena di montaggio più i tempi di trasporto da tutti i paesi della Campania allo stabilimento), una franchigia per la malattia per cui i primi giorni di assenza non sono pagati, personalizzazione dei rapporti di lavoro. Senza una contrattazione. La Fiat si è presentata a Fim, Fiom e Uilm dicendo "prendere o lasciare", non ci sono margini di modifica. O votate tutti sì oppure chiudo e la nuova Panda la faremo in Polonia.
Marchionne, appeso il golfino al chiodo ha indossato la mimetica. Ha preteso il referendum tra i 5 mila dipendenti, militarizzato la fabbrica, trasformato i capi in caporali, ha inviato a casa di tutti i lavoratori la sua interpretazione dell'accordo, li ha precettati in fabbrica dopo due anni di cassa, li ha edotti su come votare, li ha fatti accompagnare al seggio dai soliti capi che hanno preteso l'autocertificazione, costringendoli a fotografarsi mentre mettevano la croce sul sì e a mostrare la prova. Risultato: nonostante la minaccia di licenziamento, nonostante la complicità di Fim, Uilm, Fismic (ex Sida, il sindacato giallo degli anni Cinquanta), Ugl (ex fascista), nonostante le pressioni della Cgil sulla Fiom perché accettasse di firmare l'accordo che condanna a morte i diritti, nonostante tutto ciò i sì non sono andati oltre il 62 per cento. Quel 36 per cento di no consegnano alla Fiom una delega ben più corposa rispetto al 21 per cento di consensi alle ultime elezioni delle Rsu. Le tessere delle altre organizzazioni strappate e le crescenti domande di iscrizioni alla Fiom mostrano un quadro in movimento.
Pomigliano è la fabbrica dell'Alfa Romeo costruita dallo Stato alla fine degli anni Sessanta e venduta – regalata – alla Fiat nel 1986. I dipendenti in vent'anni sono scesi da 17 a 5 mila e lo stabilimento si è specializzato nelle vetture di fascia media del prestigioso marchio del Biscione. La Fiat, dopo l'esplosione della crisi nel 2008 e gli investimenti negli Usa con l'acquisizione della Chrysler, ha deciso di ridurre la produzione in Italia. Prima ha annunciato la chiusura di Termini Imerese (1'500 dipendenti più l'indotto) per trasferire la Lancia Ypsilon in Polonia, poi ha detto che per salvare Pomigliano avrebbe portato dalla Polonia la Panda (tra due anni, se la domanda miracolosamente raddoppiasse). Ma a una condizione: la resa operaia e sindacale, l'omologazione al ribasso delle condizioni di lavoro alla fabbrica di Tychy, la cancellazione dei diritti conquistati in sessant'anni di lotte.
Il voto tutt'altro che plebiscitario di martedì ha riaperto la partita e Marchionne deve scegliere se aprire finalmente una trattativa vera, senza ricatti, con tutti i sindacati, oppure forte della complicità del governo e della stragrande maggioranza dei sindacati, della subalternità dell'opposizione parlamentare, dell'ambiguità della Cgil, se pretenderà le spoglie e la firma della Fiom, salvo annullare gli investimenti a Pomigliano e volare in Polonia. Fottendosene delle vagonate di danaro spremute dalle casse dello Stato in 110 anni di vita, fino alle più recenti rottamazioni. Fottendosene della rivolta sociale in una terra disperata come la Campania. Se passassero le nuove regole che la Fiat vuole imporre, come altre volte nella storia la multinazionale dell'auto farebbe scuola per tutto il padronato, un bel passo verso il ritorno alla schiavitù e un sostegno all'attacco del governo alla Costituzione e allo Statuto dei lavoratori.

Pubblicato il

25.06.2010 03:00
Loris Campetti