Multiculturalità? Integrazione? Sono parolone per Alain Devegney. Lui si affida alla pratica, non alla teoria. Gli interessa far bene il suo mestiere di poliziotto. Punto e basta. «Non si tratta di decidere se amare o non amare gli stranieri, non è una questione di idealismo. Come poliziotti non abbiamo scelta: dobbiamo essere pragmatici, soprattutto in una città che conta il 40 per cento di stranieri». Alain Devegney non è sempre stato un tipo pragmatico. A modo suo era un idealista nei primi anni ‘80, quando giovane poliziotto militava nel partito di estrema destra ginevrino Vigilance contro gli africani e gli altri stranieri che “invadevano” la Svizzera. Vent’anni dopo questo poliziotto sulla cinquantina, esperto in arti marziali, trattiene a stento le lacrime mentre saluta all’aeroporto di Cointrin un amico congolese che lascia la Svizzera. La vita lo ha cambiato. Lo ha spinto verso sé stesso, e quindi verso gli altri. Un arresto abusivo subito nell’ex Zaire, e capisce che il dialogo con persone di culture diverse è l’unica soluzione possibile. Ma anche la madre che sceglie di vivere con una persona di colore: «È stata una cosa difficile per me. E poi ho realizzato che era più contenta con quest’uomo venuto dall’altra parte del mondo che con mio padre», dice agli avventori di un bar africano e ai vicini infuriati per il rumore e gli odori in una delle scene più intense del documentario “Pas les flics, pas les noirs, pas les blancs” (2002) di Ursula Meier di cui è protagonista. Alain Devegney – che nell’ambito della manifestazione “TraSguardi” la scorsa settimana era in Ticino dove ha incontrato anche i colleghi della Polcantonale e della Polizia comunale di Lugano – ha costruito assieme a Sarah Khalfallah dell’associazione MondialContact e al collega Yves Delachaux un inedito progetto di mediazione tra la polizia e le comunità straniere che vivono a Ginevra (vedi box sotto). Non teorizzata a tavolino ma nata e modificatasi col lavoro sul terreno, l’esperienza è durata dalla primavera del 1999 ai primi mesi del 2002. Prima però i tre – e le persone di origine straniera del collettivo di mediatori formato da MondialContact – hanno dovuto confrontarsi con reciproci pregiudizi, superare reciproche diffidenze. «Mi ci è voluto un anno per avere fiducia in Alain», ha detto giovedì scorso Sarah Khalfallah al cinema Forum di Bellinzona al termine della proiezione del documentario di Ursula Meier che racconta successi, esitazioni e contraddizioni di un’esperienza unica nel suo genere in Svizzera. Un’esperienza che ha cucito amicizie insperate. Ma che si è anche scontrata con i pregiudizi e la diffidenza dell’ignoranza: «Per la maggior parte dei miei colleghi ciò che facevo non valeva niente. Ma non sapevano nemmeno cosa facessi. Non capivano», dice Alain al quale un superiore, dopo aver visto il film, consigliò di «pensare alla mia carriera». Il documentario di Ursula Meier ha avuto «l’effetto di un elettrochoc» sulla polizia ginevrina e i suoi responsabili politici: ad Alain Devegney è stato ordinato di smettere, la figura dell’agente di quartiere “etnico” è stata cancellata; i corsi di formazione di Yves invece sono andati avanti. Perché «la formazione non è pericolosa, mentre il lavoro sul terreno sì», osserva Alain. Che constata: «Un poliziotto che esce fuori di testa è normale. Lo si punisce ed è finita lì. Ma due poliziotti che riflettono disturbano. Progetti del genere non si possono fare senza un appoggio forte da parte della gerarchia e dei politici responsabili della polizia». Un appoggio che Alain Devegney e Yves Delachaux ad un certo punto hanno perso, come spiegano nell’intervista concessa ad area. Siete arrivati in Ticino proprio mentre la stampa rendeva nota la sospensione dei due agenti della Polcantonale accusati di aver ripetutamente derubato dei richiedenti l’asilo. Cosa avete provato leggendo i giornali? Alain Devegney: Innanzitutto disagio, imbarazzo. Ho saputo che sono due giovani colleghi. E che erano di pattuglia assieme. Un errore a mio avviso: a un giovane bisognerebbe sempre affiancare un agente più anziano. Yves Delachaux: L’importante in questi casi è capire se si tratta solo di pecore nere. Se è così, scatta la sanzione e l’affare è chiuso. Ma sarebbe troppo facile limitarsi a questo. È indispensabile che l’istituzione si ponga delle domande: come diceva Alain, è normale che due giovani agenti stiano assieme nella stessa pattuglia? Ad abusare del loro ruolo sono stati solo quei due agenti, oppure si tratta di comportamenti diffusi, di gruppo? E poi, cosa ha offerto a questi due poliziotti la polizia in quanto a formazione? La stragrande maggioranza dei poliziotti che ho incontrato sin qui sono persone che hanno delle convinzioni, sperano di poter cambiare la società. Però una volta al fronte si rendono conto di non poter fare granché: si ritrovano soli, e devono arrangiarsi con ciò che hanno. E a quel punto le manette, il manganello, la pistola non bastano. Il poliziotto lavora quasi esclusivamente con persone marginali: chi ha delle risorse personali, come Alain, se la cava egregiamente; ma chi non ne ha, chi è fragile? Per questo la formazione – in senso lato, non puramente tecnica – degli agenti è indispensabile. Alain Devegney: È vero. Quando usi la pistola si analizza nel dettaglio il perché, quando hai sparato, quanti colpi, a quanti metri, ecc. E se si scopre che qualcosa è andato storto si correggono subito le cose a livello di formazione. In genere non succede la stessa cosa quando si verificano degli abusi di autorità da parte degli agenti. Eppure anche in questi casi qualcosa non ha funzionato a livello di formazione. Voglio dire che la polizia fa formazione continua per tutto ciò che è tecnico, mentre il lato umano in genere è trascurato. Ma l’istituzione deve rimettersi in discussione anche a questo livello. Cos’è un agente di quartiere “etnico”? Alain Devegney: Cos’era... L’esperienza è terminata nella primavera del 2002, bloccata in modo brusco dall’allora capo della polizia e dal dipartimento giustizia e polizia [diretto dalla liberale Micheline Spoerri, ndr]. Il lavoro sul terreno non esiste più, mentre a livello di formazione fortunatamente si è continuato a fare qualcosa ed è Yves che se ne occupa. L’agente di quartiere “etnico”, con la collaborazione dei suoi colleghi, reperiva delle situazioni problematiche dal punto di vista “culturale” più che penale. Cioè? Alain Devegney:Ad esempio, un africano che aveva intrattenuto rapporti sessuali con una giovane donna con un andicap mentale. Nel suo paese non sarebbe stato penalmente perseguibile, qui in Svizzera invece sì. Siamo riusciti a coinvolgere la famiglia della donna in una mediazione. E un mediatore, africano, ha accompagnato l’uomo durante un certo tempo. In un altro caso, siamo riusciti persino a mediare tra un giovane dell’Msi [il filofascista Movimento sociale italiano, ndr] e due famiglie africane. Non domandavamo certo loro di amarsi, solo di convivere. In molti casi comminare delle multe, fermare e arrestare delle persone non fanno che peggiorare le cose. Meglio gestire queste situazioni in altro modo, attraverso una mediazione svolta da persone della stessa cultura. Cos’è stato più difficile: il lavoro con cittadini di altre culture o i rapporti con i colleghi? Alain Devegney: L’incomprensione da parte dei nostri colleghi. Molti pensavano che non era un lavoro per noi, che dovevano occuparsene gli assistenti sociali. Man mano che venivamo “scaricati” dalla gerarchia e dai politici, le cose peggioravano. E anche tra gli agenti c’era chi si rallegrava di quest’evoluzione: “sono cazzate, è una cosa che non funziona”, dicevano. Alcuni colleghi mi chiedevano: “ma cosa ti è successo?”, “Esci con una nera?”, ecc. Come se avessi una malattia. Yves Delachaux: La polizia è abituata a restare confinata nel suo ruolo repressivo tradizionale. Il lavoro di Alain disturbava perché spesso bloccava la repressione. Puoi multare tutti i giorni per rumori molesti i proprietari di bar, ristoranti e circoli di comunità straniere. Ma il problema non scompare. Mentre Alain, attraverso gli interventi di mediazione, proponeva un lavoro a più lungo termine, che implicava la rinuncia ad azioni puramente repressive. Ammettere ciò è difficile, non solo per la polizia ma anche per la gente stessa: a volte le persone si rifiutavano di partecipare a una mediazione, dicevano che i poliziotti non sono pagati per questo. Nel vostro lavoro quotidiano vi siete scontrati spesso con i vostri colleghi gendarmi? Alain Devegney: No, grazie al mio temperamento e alla mia carriera. All’interno del corpo sono rispettato: nessuno poteva dire che lo facevo per paura, perché di lavoro “repressivo” ne ho fatto per parecchi anni. Avete sofferto dell’immagine negativa della polizia ginevrina? Alain Devegney: Non è sempre stato facile avere la fiducia delle persone. Le persone avevano i loro pregiudizi: un poliziotto non può che essere repressivo, votare a destra, ecc.; invece molti agenti – soprattutto quelli che sono diventati agenti di quartiere – hanno una sensibilità sociale. Per noi si è trattato insomma di superare un muro. Non è stato facile farci accettare, e le prime volte che andavamo in un bar, a parlare con le persone, era tutt’altro che evidente. Yves Delachaux: Quando il progetto è stato interrotto, tutti i partiti politici – di sinistra come di destra – hanno espresso giudizi positivi. E l’immagine della polizia ginevrina ne ha guadagnato. Yves Delachaux, come formatore quale sensibilità riscontri negli agenti per quel che riguarda la multiculturalità e più in generale l’etica e i diritti umani? Yves Delachaux: Dipende. In generale mi rendo conto però che a differenza dell’etica e dei diritti dell’uomo, la questione multiculturale è un problema. Tutti sono d’accordo che bisogna evitare gli abusi. Ma quando si parla di stranieri, di scambio culturale, la cosa si fa “calda”. Pensi che persino la partecipazione di Sarah [che è di origine franco-tunisina, ndr] ai nostri corsi è stata vissuta con diffidenza da alcuni. box Un partenariato tra Stato (la polizia cantonale ginevrina) e società civile (l’associazione MondialContact-cultures et citoyenneté) per aprire spazi di comunicazione tra le forze dell’ordine e le comunità straniere. Una duplice azione: a livello formativo (sensibilizzazione e formazione degli agenti sulle questioni interculturali) e sul terreno (interventi di mediazione in situazioni delicate che vedono coinvolte persone o gruppi di origine straniera). È questa l’inedita (almeno fino ad allora) esperienza condotta a Ginevra tra la primavera 1999 e i primi mesi del 2002 raccontata nel bel documentario della regista franco-svizzera Ursula Meier “Pas les flics, pas les noirs, pas les blancs” (2002), proiettato la scorsa settimana al cinema Forum di Bellinzona nell’ambito della rassegna “TraSguardi”. Alain Devegney e Yves Delachaux, i due poliziotti protagonisti del documentario, erano allora gli “îlotiers ethniques” (agenti di quartiere “etnici”) della polizia ginevrina che dal 1992 dispone di un “pool” di agenti di quartiere, di prossimità, che intervengono a titolo preventivo per evitare o sedare situazioni che potrebbero sfociare in disordini (e azioni repressive) di vario genere. Nei tre anni di lavoro sul terreno (i corsi di formazione si tengono tutt’ora, mentre la polizia si è ritirata dalla mediazione), i due agenti hanno stilato 30 rapporti su altrettanti interventi di mediazione compiuti facendo capo a un gruppo di una quindicina di mediatrici e mediatori appartenenti alle diverse comunità straniere e formati da Sarah Khalfallah dell’associazione MondialContact. Fra di essi Tity Dinkota, leader della comunità congolese, che correndo il rischio di passare per “collaboratore” della polizia si mise a disposizione inaugurando così la fase sperimentale del progetto.

Pubblicato il 

28.10.05

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