«Più giustizia»: intervista a Jean-François Giovannini

La Svizzera deve imparare ad essere meno modesta. Con la sua reputazione, la sua esperienza e la qualità del suo aiuto, potrebbe essere ascoltata molto attentamente e contribuire attivamente a ridurre gli squilibri planetari. Fare un buon lavoro in disparte, a volte diffidando degli altri, non basta. Lasciando, dopo 33 anni, la Direzione dello sviluppo e della cooperazione (Dsc), il 65enne Jean-François Giovannini, fa il bilancio di una generazione di speranze e delusioni. Intervista con un ribelle ottimista, che resta impegnato per un mondo migliore. Lasciando i vertici della cooperazione svizzera, di cui è stato vicedirettore, quale è il suo bilancio? La comunità internazionale, Svizzera compresa, si è lanciata 40 anni fa in questa incredibile utopia: porre fine all’enorme miseria materiale nella quale viveva la maggioranza dell’umanità. I risultati positivi sono evidenti, a volte spettacolari: durata media di vita è passata da 44 a 65 anni, abbassamento della mortalità infantile, accesso all’acqua potabile, all’educazione…Tuttavia la situazione resta inaccettabile per quasi 1,5 miliardi di persone, private del minimo vitale nella quasi totale indifferenza generale. Ci si è abituati ed è questo che mi rivolta. L’11 settembre, siamo stati traumatizzati dalla morte in diretta, sotto i nostri occhi, di migliaia di newyorkesi. Lungi da me l’idea di minimizzare questa tragedia spaventosa. Ma ogni giorno migliaia di bambini muoiono a causa di un sistema economico ingiusto. Se fossimo scandalizzati dall’evitabile morte quotidiana di tanti africani, ci sarebbero migliaia di svizzeri ogni giorno davanti a Palazzo federale a reclamare che il nostro aiuto venga triplicato. Uno dei fallimenti della Dsc, è la nostra incapacità di dimostrare al pubblico ed ai politici svizzeri la vera dimensione dei problemi che ci minacciano tutti. Smuovere l’indifferenza Come smuovere questa indifferenza? Non c’è abbastanza passione, non c’è abbastanza ribellione. Il mondo, soprattutto l’Africa, grida aiuto. Siamo di fronte ad una questione di vita o di morte per milioni d’esseri umani ma i mezzi a disposizione sono assolutamente non proporzionali alla vastità dei problemi. Il volume di aiuti internazionali, che tende a diminuire, non permette di contrastare questa evoluzione. Un esempio: ci vorrebbero 10 miliardi di dollari all’anno per combattere l’aids ma gli Stati Uniti hanno proposto 200 milioni. Il tabagismo costa loro centinaia di miliardi e tutti sganciano. La discesa agli inferi dei Pma (Paesi meno avanzati) esige una strategia comune per soluzioni concrete e rapide: una moratoria per il risarcimento dei debiti, esenzione dai diritti sui prodotti brevettati, integrazione regionale, accesso preferenziale ai mercati dei paesi ricchi… Dobbiamo assolutamente permettere loro di vendere. Ma i paesi industrializzati non ci stanno. Allorquando il Sud vuole esportare dei prodotti che toccano i loro interessi, le restrizioni piovono (sotto questo aspetto la Svizzera è molto aperta ai prodotti fabbricati al Sud e prevede un alleggerimento per i prodotti agricoli). Per quanto riguarda il debito, le banche che hanno sconsideratamente prestato devono sborsare anch’esse. La responsabilità della Banca Mondiale stessa non è mai stata analizzata. E la responsabilità dei paesi poveri? Certamente possiamo anche dire «è colpa dei dittatori». Raggiungere una buona governabilità è naturalmente essenziale. Ma il Mali, che è diventata una nazione molto democratica, riceve forse molti più aiuti rispetto agli altri? Chi può cambiar le cose? L’Onu o la Banca Mondiale non hanno la forza politica se gli Stati non si coinvolgono. Prendiamo il lavoro infantile. Una proibizione totale non è attualmente realizzata. Ma sopprimere le peggiori forme di sfruttamento (sessuale, schiavitù,…) non presenta ostacoli di tipo economico. Così l’Olanda e la Norvegia, in collaborazione con l’Organizzazione internazionale del lavoro, hanno preparato dei buoni dossier e affiliato altre nazioni tra cui la Svizzera. Risultato: una convenzione internazionale mette sotto pressione i paesi in cui tuttora esiste il problema. La Svizzera stessa ha avuto un ruolo da pioniera nello sdebitamento dei paesi poveri, ruolo che dobbiamo ora portare avanti. A quando una nuova iniziativa svizzera? La Svizzera, importante donatrice (1,5 miliardi di franchi annui per la cooperazione e l’aiuto umanitario) può diventare un attore importante. Potremmo fare molto coinvolgendoci a livello ministeriale, creando alleanze con nazioni che hanno circa le nostre idee (Canada, Paesi europei). Si tratta di smuovere un’energia politica attorno ad un obiettivo preciso. La Svizzera non deve essere timida Quali sono i punti forti dell’aiuto svizzero che lo contraddistinguono dagli altri? Innanzi tutto la nostra preoccupazione per l’ascolto. Non solo da parte della Dsc, ma di tutte le principali organizzazioni per la cooperazione allo sviluppo con cui lavoriamo. Siamo più rispettosi verso i nostri partner. I cooperanti svizzeri s’interessano alla cultura locale, s’alzano a salutare se qualcuno arriva… sono dettagli importanti. Sbarcando, siete quelli con i soldi e il potere, portate computer, forse un biglietto d’aereo per condurre qualcuno in Svizzera o potete assumere qualcuno. Se vogliamo che la gente locale s’appropri dei progetti (e non imporre il modello svizzero) ci si deve mostrare semplici e aperti. Il nostro vero scopo non è quello di moltiplicare gli alberi o le ricchezze ma quello di permettere la realizzazione personale di ogni nostro partner. La nostra cooperazione è partecipativa. Sosteniamo fortemente le forze locali, le Ong, le donne che sono una forza di cambiamento. È il riflesso della nostra cultura del consenso: non amiamo impartire ordini. Lavoriamo il più possibile con gli esperti locali e le imprese locali. Stiamo attenti a non dilapidare ed a adattarci al territorio. Il nostro aiuto non è una Rolls né una 2CV, ma una 4X4 robusta ed economica. Altri tratti salienti: la dimensione ecologica e quella femminile e, più recentemente, la prevenzione della violenza e la riconciliazione. Malgrado tutte queste sfide, la Svizzera è troppo modesta? Lo svizzero è per natura modesto o, in ogni caso, fa il modesto. In molti paesi, come il Ciad, siamo presenti con altri: Francia, Germania, Canada, Unione europea... Abbiamo molto da dire, ma spesso ci confiniamo in «nicchie» dove siamo competenti. Dovremmo osare di più ad influenzare il sistema globale. È quanto fa il nostro collaboratore Jürg Frieden. Ha assunto delle responsabilità ed un ruolo politico. Il nostro paese ha così avuto un ruolo decisivo nella pacificazione in Mozambico dopo 30 anni di guerra civile: smobilitazione dei soldati, formazione dei poliziotti, salute pubblica. Dovremmo davvero muoverci in questa direzione poiché la Svizzera non ha un passato coloniale, ha dei buoni programmi e gode di fiducia. Con questo la Svizzera conterebbe all’Onu? L’Onu è un luogo inevitabile per esercitare le nostre responsabilità di cittadini del mondo. Se fossimo stati membri durante il dramma ruandese del 1994 avremmo potuto difendere una soluzione politica, vista l’influenza che avevamo laggiù. Certo, di fronte alle grandi potenze i nostri mezzi sono limitati. Ma si vede bene che Olanda, Norvegia o Danimarca si danno da fare e si fanno sentire. Ho partecipato a numerose conferenze internazionali. Quando si sa ciò che si vuole e come formare delle alleanze, si esercita sempre un’influenza. All’Onu ci sono 20 o 30 paesi attivi, a volte anche meno. Là dove la Svizzera è presente ha sempre peso, specialmente sulle questioni «gender» (uguaglianza uomo-donna), diritti umani, diritto umanitario, ambiente ecc. La delegazione svizzera sarebbe nel campo dei riformisti? Se si paragonasse l’Assemblea generale dell’Onu al Consiglio nazionale allora saremmo tra i banchi del «centro-sinistra». Anche in materia economica? Eh, qui saremmo piuttosto al centro. Ma comunque, il Seco (Segretariato dell’economia) ha difeso posizioni aperte sullo sdebitamento e la promozione delle esportazioni del Sud. Sul segreto bancario saremmo di sicuro a destra…Ma per finire il nostro paese è abbastanza sociale, ha un senso etico, la preoccupazione per i deboli è notevole. Scolarizziamo i figli dei clandestini. Traduzione Sonia Salmina

Pubblicato il

19.10.2001 02:30
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