Come in ogni racconto di bucanieri che si rispetti, anche questa storia inizia da un tesoro nascosto. Non sta su un’isola paradisiaca, ma giace a chilometri di profondità sul fondo del mare. Nel buio più totale degli abissi. Non è un tesoro luccicante. Anzi, all’apparenza è piuttosto bruttino: una sorta di patata nera, composta di vari metalli quali cobalto o manganese. In gergo tecnico si chiamano “noduli polimetallici” e sono l’ultima frontiera di una controversa corsa alle materie prime fatta in nome della cosiddetta “transizione ecologica”. La sua immagine richiama quella del capitano Jack Sparrow, protagonista della saga Pirati dei Caraibi, dove è interpretato da Johnny Depp. Gerard Barron è il volto dell’estrattivismo d’assalto in acque profonde. Presidente e amministratore delegato della società canadese The Metal Company (TMC), l’uomo si considera un ambientalista in missione per aiutare l’umanità ad abbandonare i combustibili fossili proponendo un’alternativa ecologica all’estrazione mineraria terrestre: «I noduli sottomarini offrono un modo per ridurre sensibilmente il costo ambientale di questa estrazione» ha dichiarato in un’intervista. La realtà, però, non è così edulcorata. Negli ultimi anni, l’estrazione mineraria in mare profondo (deep sea mining in inglese) è al centro di una vera e propria contesa a livello internazionale. Da una parte vi è il crescente interesse da parte di alcune aziende e di alcuni Stati per potere sfruttare commercialmente queste risorse minerarie. Dall’altra vi sono scienziati, ONG e altri Stati che chiedono di sospendere tali pratiche, il cui impatto sull’ambiente marino è ad oggi ancora ignoto. In mezzo, a tentare di dare delle regole, vi è un poco noto ente intergovernativo basato in Giamaica: l’International Seabed Authority (ISA). Fondato nel 1994 nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, l’ISA organizza e controlla, “a beneficio di tutta l’umanità”, ogni attività legata allo sfruttamento delle risorse minerarie della zona internazionale dei fondali marini. Stiamo parlando di quelle acque al di fuori delle giurisdizioni nazionali che costituiscono gran parte del pianeta Terra. Il mandato dell’agenzia è chiaro: garantire la protezione dell’ambiente marino dagli effetti negativi che possono derivare dalle attività di estrazione in acque profonde. D’altro canto, però, l’ISA deve anche coordinare l’estrazione mineraria nelle stesse zone che deve proteggere. È quindi in questa sorta di contraddizione intrinseca all’ente che pirati alla Gerard Barron hanno trovato la falla per poter mettere mano a questi moderni tesori. L’isola di Capitan Barron 14 novembre 2022. TMC annuncia che la sua filiale Nauru Ocean Resources INC (NORI) e il suo partner e principale azionista Allseas Group, basato in Svizzera, hanno concluso “con successo” un primo test nella Clarion Clipperton Zone (CCZ), nell’Oceano Pacifico: oltre 3.000 tonnellate di noduli polimetallici sono state aspirate dai fondali e pompate in superficie. Le aree ricche di minerali, come la CCZ, sono state parcellizzate dall’ISA in diversi lotti e affidate a vari appaltatori. Scopo: verificare la fattibilità dell’estrazione mineraria, testare le tecnologie e studiarne gli impatti. Negli ultimi anni sono state rilasciate una trentina di queste “licenze d’esplorazione”, di cui tre a TMC. Per ottenere questi permessi, occorre un requisito fondamentale: un’azienda deve avere il sostegno ufficiale da parte di uno Stato membro dell’ISA. Questa prassi, volta a garantire un certo controllo sulle compagnie private, ha contribuito però ad alimentare opache alleanze. TMC ha ad esempio ottenuto le sue licenze grazie all’appoggio di tre piccoli Stati insulari – Tonga, Kiribati e Nauru – che vedono nell’estrazione in acque profonde una nuova fonte di reddito. Con meno di 13.000 abitanti, Nauru è considerata la repubblica indipendente più piccola del mondo. Presso l’ISA, il piccolo Stato del Pacifico fa coppia fissa con TMC al punto che la sua delegazione è spesso composta da membri della società, Gerard Barron compreso. Nel 2021, Nauru è persino arrivata a chiedere formalmente all’ISA di accelerare l’adozione dei regolamenti sull’estrazione nei fondali marini. Iniziati nel 2011, i lavori che dovrebbero regolamentare il settore sono tuttora in fase di consultazione, ma la richiesta di Nauru ha messo sotto pressione l’intera comunità internazionale. L’obiettivo è chiaro: permettere a TMC di commercializzare il prima possibile i minerali estratti nelle acque profonde. La licenza NORI, sostenuta proprio da Nauru, è quella in fase più avanzata. Non a caso, la società di Gerard Barron ha già siglato un accordo con Glencore: il colosso elvetico si è assicurato il 50% del nichel e del manganese che NORI porterà a terra dalle profondità del Pacifico. C’è chi dice no La prova di forza voluta da TMC ha però suscitato la reazione organizzata di chi chiede più tempo. Una trentina di Stati membri dell’ISA, tra cui la Svizzera, sostengono ormai una moratoria. «Gli studi scientifici attuali concordano sui rischi e sugli impatti dannosi, in parte irreversibili, delle attività estrattive in acque profonde» ci spiega Pierre-Alain Eltschinger, portavoce del Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE), a cui compete il dossier. La Svizzera chiede di prendere tempo «in virtù del principio di precauzione, e fino a quando non saranno disponibili sufficienti conoscenze scientifiche e non sarà garantita un’efficace protezione dell’ambiente marino». La pressione arriva anche dalla comunità scientifica, oltre che dalle ONG: «Immaginate queste macchine che rastrellano i fondi del mare e risucchiano queste rocce, trascinando con sé i sedimenti per diversi chilometri. Ciò può interrompere dei cicli geofisici e lo stoccaggio del carbonio» ci spiega Clément Chazot, specialista degli oceani presso l’Unione internazionale per la Conservazione della Natura, basata nel Canton Vaud. Secondo l’esperto, l’impatto di queste pratiche «può essere irreversibile sull’ambiente sottomarino, gran parte del quale è ancora sconosciuto». Ma la critica a queste pratiche arriva anche dal mondo delle imprese, con alcune importanti case automobilistiche che hanno annunciato di non volersi rifornire tramite minerali estratti dagli abissi. La stessa Glencore sembra volere fare marcia indietro. La multinazionale basata nel Canton Zugo ha venduto le azioni che deteneva in TMC e sembra scettica anche sull’avvenire di queste pratiche: «Al momento, la nostra conoscenza e comprensione delle profondità marine e dell’impatto dell’attività estrattiva in queste aree è limitata. Riteniamo che siano necessari ulteriori studi, nonché standard e quadri di governance forti» ci spiega la portavoce di Glencore, Sarah Antenore. Un’oceanografa al potere Nonostante le crescenti voci contrarie, TMC va avanti per la sua strada. Di recente ha annunciato di volere inoltrare una domanda per una “licenza di sfruttamento” per NORI entro la fine del 2024, indipendentemente dall’entrata in vigore delle normative internazionali. Per la società di Barron, finanziata dalla svizzera Allseas e quotata alla borsa di New York, poter procedere il prima possibile allo sfruttamento commerciale dei fondali è una questione di vita o di morte. Ha puntato tutto su questa attività che per ora non produce utile e per la quale necessita di sempre più capitali. Per chi si batte per la difesa degli ecosistemi è invece cruciale prendere tempo. In questo contesto di interessi divergenti, continuano presso l’ISA le discussioni su come regolamentare questo settore. Una bozza definitiva di regolamento dovrebbe arrivare nel 2025. Nel frattempo, le tensioni tra Stati promotori e i contrari che attanagliano l’ente sono emerse anche nell’ambito della recente elezione del suo Segretario generale. A contendersi il posto vi era il segretario uscente, l’avvocato britannico Michael Lodge, sostenuto da... Kiribati, e l’oceanografa brasiliana Leticia Carvalho, sostenuta dal suo paese. Carvalho ha dichiarato che il completamento delle normative debba precedere qualsiasi operazione industriale. Una posizione opposta a quella di Lodge, da tempo nell’occhio del ciclone per mancanza di trasparenza e per la troppa vicinanza con l’industria, in particolare con TMC. L’uomo è stato in passato accusato di avere condiviso dati chiave dell’ISA con l’azienda di Barron per la quale era apparso anche in un video promozionale. A vincere (79 a 34) è stata Leticia Carvalho, che ha promesso protezione degli ambienti marini e trasparenza nei processi decisionali. Non sappiamo se riuscirà a mantenere le promesse, ma la sua elezione è sicuramente un segnale contro l’opacità dilagante degli anni passati e a favore del cambiamento.
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