A metà degli anni Ottanta le bande dei «contras» finanziate dagli Usa invadevano il Nicaragua e bloccavano, tra l’altro, anche gli sforzi compiuti dai sandinisti tra l’80 e l’85 in campo sanitario, dove la situazione era una delle peggiori dell’America latina. Solo la mortalità infantile, per esempio, era di quasi il 200 per mille. Fu allora che Franco Cavalli, consigliere nazionale socialista e oncologo di fama internazionale, assieme a diversi medici di organizzazioni progressiste lanciava nel 1985 l’Aiuto Medico al Nicaragua, in seguito trasformato in Associazione d’Aiuto Medico per il Centro America (Amca). Che il professor Cavalli sia attivamente impegnato in favore del Terzo Mondo e dell’America Latina, è abbastanza risaputo. Meno conosciuto è invece ciò che concretamente ha fatto e sta facendo nell’America centrale, in particolare nel Nicaragua, dove centinaia di bambini devono la vita e l’istruzione a lui, ai programmi ed alle iniziative realizzati grazie al suo impegno e con il denaro raccolto dall’Amca. Abbiamo allora chiesto a lui – presente al Forum sociale mondiale di Porto Alegre e, per l’occasione, s’è recato anche in America centrale – di parlarci della sua attività. «Per un lungo periodo – racconta Cavalli – ci siamo concentrati soprattutto nell’aiuto diretto un po’ a tutti i principali ospedali di Managua; e poi su un progetto abbastanza complesso di diagnosi precoce del tumore uterino, che è un vero flagello in Sudamerica e che colpisce in media donne sui 31-32 anni. Dopo la sconfitta dei sandinisti, e dato che il nuovo governo non era più interessato ai progetti sanitari, ci siamo riconvertiti concentrandoci dapprima sul progetto di ospedale infantile, che come tale era talmente popolare in Nicaragua da non poter essere abolito dal governo; ed in seguito su una scuola, «Barilete de colores»: localizzata in uno dei quartieri più poveri e derelitti di Managua, dà non solo istruzione ma anche da mangiare a 300 bambini». Anche sua moglie Yvonne è stata coinvolta in questo progetto… Sì, lei ha giocato un ruolo importante all’inizio. Tutto è nato da una sua decisione di andare in Nicaragua. Quando sono andato a trovarla nel 1985 per un periodo di 3 mesi, ho avuto i primi contatti e mi sono state fatte le prime richieste di aiuto da parte delle autorità sanitarie, ciò che poi ha portato a questo progetto. Da dove vengono gli aiuti finanziari per le sue realizzazioni? Gli aiuti vengono fondamentalmente dalla popolazione ticinese: raccogliamo grosso modo da 300 a 400 mila franchi ogni anno in Ticino. Ci sono poi gli aiuti che vengono dai Comuni, dal Cantone e, anche se non molto sostanziosi, dalla Confederazione. E ci sono i cosiddetti padrinati: ne abbiamo circa 200 per la scuola e circa 100 per il progetto all’ospedale pediatrico. Si tratta di persone che pagano grosso modo mille franchi all’anno per garantire o l’educazione di un bambino, o la terapia per un bambino ammalato. Di quanto potete disporre ogni anno? Varia un po’ da un anno all’altro; ma disponiamo grosso modo dai 500 ai 700 mila franchi ogni anno. Chi sono quelli che, al di là dei soldi, l’aiutano materialmente a tenere in piedi queste attività? Abbiamo dei comitati: uno si occupa della scuola, un altro si occupa dell’ospedale. Ci sono poi diverse persone che lavorano come volontari all’interno della nostra associazione; ed abbiamo dei volontari sul posto, tra cui la signora Nicoletta Gianella che da anni vive in Nicaragua e coordina la nostra attività. In Ticino abbiamo anche due segretarie a metà tempo che si occupano della parte amministrativa. Il tutto, quindi, si basa su una ministruttura, funzionante grazie al molto lavoro di volontariato. Ha avuto anche un sostegno da strutture italiane? Il progetto all’ospedale pediatrico di Managua l’abbiamo iniziato noi nel 1987, ma già da più di dieci anni lo portiamo avanti congiuntamente con la Clinica pediatrica dell’Università di Milano, che ha sede a Monza. Questo, oltre a garantirci un forte apporto di aiuto economico, ci assicura anche una migliore copertura medico-scientifica, nel senso che è più facile formare il personale medico e infermieristico in una clinica pediatrica, che non in strutture, come quella di cui io sono responsabile in Ticino, che si occupano solo di pazienti adulti. Quali difficoltà specifiche ha incontrato sul posto? Le difficoltà sul posto sono molto diverse a seconda del tipo di governo con il quale si ha a che fare. Al tempo dei sandinisti non avevamo nessuna difficoltà di collaborazione. Il problema era eventualmente quello di riuscire a fare tutto quello che loro volevano. In seguito, le difficoltà sono aumentate soprattutto per i nostri progetti in campo sanitario, da un lato perché la medicina è stata in buona parte privatizzata, e quindi molte di quelle persone che noi cercavamo di aiutare non aveva più accesso al sistema sanitario; e d’altro lato perché il governo non era fondamentalmente molto interessato alla nostra attività. L’ultimo governo, prima di quello attuale, presentava il problema di essere estremamente corrotto, per cui bisognava fare attenzione in qualsiasi contatto con loro, perché si rischiava di dare degli aiuti che sarebbero potuti finire nelle tasche dei governanti e non di coloro che ne avevano bisogno. Dopo oltre quindici anni, quali sono i risultati in rapporto anche alle esigenze locali? Ci sono diversi modi di misurare i risultati. Dal punto di vista medico, basti dire che prima che avviassimo il nostro progetto all’ospedale infantile, tutti i bambini affetti da leucemia morivano. Ora, circa la metà viene guarita. Per un altro modo di misurare i risultati, si può dire che mentre all’inizio questo progetto aveva bisogno al cento per cento del nostro finanziamento, ora in buona parte cammina con le sue gambe e noi dobbiamo intervenire soprattutto come supervisione, o come ultima istanza d’aiuto quando laggiù non trovano un certo medicamento o una certa struttura. Siamo cioè riusciti a renderli abbastanza indipendenti, ma lo scopo è di renderli completamente indipendenti. Per quanto riguarda la scuola, il discorso è diverso: trattandosi di una comunità estremamente povera, non è pensabile che il progetto possa diventare indipendente. Come vede il futuro di queste realizzazioni? L’iniziativa mi sembra abbastanza solida, per cui sono ottimista sulla possibilità che continui, sia come ospedale pediatrico che come scuola. Quello che mi preoccupa di più sono invece le condizioni generali, nel senso che tutta la situazione politica e sociale in America Latina si sta radicalizzando. Penso alla crisi argentina, e a quanto sta capitando in Colombia e in Venezuela, per cui potrebbe darsi che nei prossimi anni il subcontinente venga sconvolto da processi d’esplosione politico-sociale. Ed in situazioni di questo tipo è sempre difficile dire che cosa si riuscirà ancora a fare. Però, da un punto di vista delle strutture, e del tipo di progetti a cui stiamo lavorando, io non ho paura. Ha avviato altre iniziative? Sì. In quest’ultimo viaggio sono stato tra l’altro anche a Cuba. Diciamo che la nostra associazione, l’Amca, ha dei progetti, però su scala minore, in San Salvador e in Guatemala, ed abbiamo fatto anche qualcosa puntualmente nel Chiapas. Ma in particolare facciamo parte dell’organizzazione che si chiama «MediCuba svizzera», che si occupa di progetti di aiuto sanitario a Cuba. Direi che la nostra attività è altrettanto forte in Nicaragua quanto lo è a Cuba. Queste sue esperienze che cosa le hanno suggerito o insegnato? I miei contatti con l’America latina sono di due tipi. Uno è quello dei progetti d’aiuto medico, nei quali i contatti sono stati positivi perché ho sempre trovato gente impegnata, disposta ad investire anche del proprio per portare avanti dei progetti. Il grosso limite col quale ci si scontra in questo settore, è il complesso d’inferiorità che in America latina si ha, soprattutto nel settore della medicina, verso gli «yankee». Abbiamo fatto un grosso lavoro d’educazione, all’interno del nostro progetto in Nicaragua, per far capire a questi medici che non tutto quello che arriva dagli Usa è giusto; e che fare della medicina buona, con risultati ottimi, è possibile anche senza copiare ciò che si fa negli Stati Uniti ed usando magari risorse minori. E politicamente? Temo un inasprimento delle contraddizioni sociali. La crisi in Argentina è solo la punta dell’iceberg di una situazione che si va degradando rapidamente in tutto il continente, nel senso che le ricette neoliberiste della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale stanno provocando dei disastri sociali immani. Se però da una parte la classe politica della vecchia sinistra latino-americana è ormai abbastanza screditata (lo si è visto anche in Argentina, dove si dice vi siano 40 partiti trozkisti diversi), d’altra parte (e questo l’ho vissuto intensamente a Porto Alegre) c’è una forte ri-politicizzazione della gioventù, cioè si sente il predominio dei giovani in questi movimenti «no global» all’interno dell’America latina. Questo fa pensare a una nuova classe dirigente, che si sta formando al di fuori delle strutture tradizionali di partito e che non si lascerà più comandare a bacchetta dagli Stati Uniti, come la dirigenza attuale.

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08.03.02

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