«Per noi era polvere e basta»

Polvere, polvere e ancora polvere. Polvere d'amianto ce n'era tanta negli spazi di lavoro della Eternit di Payerne (canton Vaud) ai tempi in cui la micidiale fibra veniva ancora lavorata, nonostante gli allora proprietari della multinazionale (prima Max poi Stephan Schmidheiny) fossero perfettamente consapevoli dei rischi che ciò comportava per la salute dei lavoratori. È quanto hanno raccontato alcuni protagonisti diretti di questo sciagurato pezzo di storia industriale, che lunedì a Losanna erano chiamati in qualità di testimoni (dunque con l'obbligo di dire la verità) e per la prima volta davanti a un'autorità giudiziaria elvetica, a descrivere le condizioni di lavoro e d'igiene all'interno di quello stabilimento.

Uno stabilimento in cui le norme di sicurezza a tutela della salute dei lavoratori erano fondamentalmente le stesse (ridicole) già accertate nelle fabbriche italiane dal Tribunale di Torino nell'ambito dello storico processo conclusosi lo scorso 13 febbraio con la condanna a 16 anni di carcere dell'allora numero uno di Eternit Stephan Schmidheiny per disastro ambientale permanente e omissione delle misure anti-infortunistiche sui luoghi di lavoro.
La conferma giunge dai racconti dei testimoni che spontaneamente hanno accettato di rispondere alle domande del giudice del canton Vaud nell'ambito di una causa civile che contrappone i famigliari di un loro ex collega morto di cancro ai polmoni e la Suva (la Società svizzera di assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali), la quale si rifiuta di fornire prestazioni assicurative per il fatto che l'uomo, oltre ad aver respirato amianto, era un accanito fumatore (vedi articolo sotto).
Non vogliono né farsi fotografare né rilasciare dichiarazioni alla stampa, anche perché alcuni di loro sono ancora legati all'Eternit (come dipendenti o parenti di dipendenti) e altri, secondo nostre informazioni, nei giorni precedenti l'udienza hanno pure subito forti pressioni da parte dell'odierno datore di lavoro (successore in diritto della società appartenuta agli Schmidheiny) per rinunciare a testimoniare. Ma dentro l'aula forniscono risposte precise e assai interessanti.
Quasi in coro raccontano di un ambiente di lavoro estremamente polveroso. «Polvere? Ce n'era dappertutto: sui mobili, sulle macchine, sui davanzali delle finestre», racconta un ex operaio. Soprattutto tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta (quando alla testa della Eternit c'era Max Schmidheiny) la situazione era catastrofica: l'amianto, che giungeva via rotaia direttamente allo stabilimento, era in un primo tempo contenuto in sacchi di iuta (estremamente permeabili alla polvere): «venivano spostati manualmente e persino lanciati sulle palette, il che produceva molta polvere». «E anche quando sono stati introdotti i sacchi in plastica – precisa un altro testimone – capitava che si rompevano e gli operai dovevano ripararli con il nastro adesivo». «E poi – aggiunge un altro – anche dopo questo cambiamento il problema della polvere non era risolto perché la fabbrica non è mai stata pulita a fondo». Lo stesso discorso si può fare in relazione alle piccole migliorie introdotte nella seconda metà degli anni Settanta da Stephan Schmidheiny, come l'installazione di un impianto di aspirazione centrale e di un sistema di ventilazione. «Prima di allora – riferisce un testimone – usavamo l'aria compressa per pulire le superfici. Spostavamo la polvere, più che altro».
Altro particolare inquietante emerso dall'udienza di lunedì: «Almeno fino alla fine degli anni Settanta» all'esterno dello stabilimento (tra l'altro nelle immediate vicinanze del luogo di lavoro della vittima oggetto della causa) venivano distrutte a cielo aperto placche e altro materiale in amianto con l'ausilio di un trax. Significative anche le dichiarazioni di un altro ex operaio sulla politica d'informazione dell'azienda circa i pericoli legati all'utilizzo dell'amianto: «Lo consideravamo semplicemente polvere, una polvere qualsiasi dalla quale proteggersi con delle mascherine. Solo in seguito abbiamo preso coscienza del pericolo, ma ormai l'amianto non lo si utilizzava più», racconta l'uomo, quarant'anni di Eternit alle spalle. «All'epoca non eravamo particolarmente preoccupati», gli fa eco un ex collega ricordando che verso la metà degli anni Sessanta la direzione dell'azienda addirittura mostrò agli operai «un filmato che rassicurava sulla bassa nocività dell'amianto».
Ascoltando le testimonianze rese davanti al Tribunale di Losanna ci è parso di udire le storie raccontate a Torino nel corso del citato processo per la strage italiana dell'Eternit: una conferma che le direttive in materia di sicurezza sul lavoro erano applicate in modo uniforme in tutti gli stabilimenti del gruppo in Europa e nel mondo.

Fumava sigarette: la Suva non paga

Dopo aver lavorato per 27 anni alla Eternit di Payerne (dal 1968 al 1995) come responsabile del reparto delle materie prime (dove giungevano e venivano immagazzinati i sacchi d'amianto) e successivamente, subentrati i primi problemi di salute ai polmoni, come magazziniere, a G. L. (da soli tre mesi in pensione) viene diagnosticato nel 1995 un cancro ai polmoni di cui morirà, settantenne, il 3 dicembre del 2003 dopo un calvario durato otto anni.

Un calvario che per i suoi famigliari sta proseguendo tuttora con una vertenza giudiziaria contro la Suva, la quale non riconosce l'origine professionale della malattia e si rifiuta di concedere le prestazioni assicurative previste per le vittime dell'amianto, facendo valere il fatto che l'uomo era un accanito fumatore di tabacco, che pure è fattore di rischio per questo tipo di patologia. Ma in un'importante sentenza del 2007 il Tribunale federale (Tf) ha stabilito che, contrariamente a quanto fatto dalle istanze precedenti nel valutare il caso di G.L., «non si può a priori escludere che l'esposizione a polveri di amianto costituisca la causa preponderante dello sviluppo di un carcinoma bronchiale per il solo motivo che l'assicurato già correva un rischio superiore alla media di sviluppare tale malattia a seguito del suo forte consumo di sigarette». La massima istanza giudiziaria svizzera ha così rinviato il caso al Tribunale delle assicurazioni sociali vodese per una nuova decisione, da prendersi dopo aver verificato il livello di esposizione alle fibre di amianto a cui è stato sottoposto G.L. durante la sua carriera lavorativa e tenendo conto delle più recenti conoscenze scientifiche in materia. Ed è proprio questo l'obiettivo del procedimento in corso a Losanna.
Sotto la lente del giudice c'è dunque anche la prassi, molto restrittiva, seguita dalla Suva nelle procedure di riconoscimento della malattia professionale per le vittime dell'Eternit e di altre aziende simili che si ammalano di cancro al polmone e non di mesotelioma, il tipico tumore da amianto che colpisce la pleura o il peritoneo. Nella sentenza il Tf ricorda che sono considerate malattie professionali quelle «dovute esclusivamente o in maniera prepon-
derante, nell'esercizio dell'attività professionale, a sostanze nocive» e che «secondo la giurisprudenza una relazione di preponderanza è data quando la malattia è dovuta per più del 50 per cento all'azione della sostanza». «Essendo però il carcinoma bronchiale una malattia diffusa anche nella popolazione non esposta all'amianto e non esistendo criteri clinici o anatomo-patologici che permettano di identificare con certezza i tumori professionali, la giurisprudenza ammette la possibilità di riconoscere l'origine essenzialmente professionale di una malattia quando si può ritenere, sulla base di dati epidemiologici, che l'esposizione alla sostanza nociva aumenta di due volte il rischio di contrarre la malattia», aggiungono i giudici federali ricordando anche come «l'aumento del rischio di contrarre un cancro bronco-polmonare in seguito a esposizione a polveri di amianto sia proporzionalmente identico nella popolazione di fumatori e in quella di non fumatori». (vedi la tabella).
Ora, alla luce di queste indicazioni, il Tribunale vodese è chiamato a verificare (usando anche le testimonianze raccolte lunedì) per quanto tempo e con quale frequenza l'operaio G.L. ha lavorato negli spazi più polverosi della fabbrica e stabilire se esiste un nesso causale con la sua malattia.
Una decisione dovrebbe giungere entro la fine dell'anno, come stima l'avvocata Charlotte Iselin, legale della famiglia della vittima. Sull'esito del processo non vuole fare previsioni, ma ribadisce i suoi obiettivi: «Si tratta di fare applicare le conoscenze mediche odierne, di far riconoscere che in particolare tra il 1968 e il 1975 gli operai erano esposti a pesanti quantitativi di polveri di amianto e che le misurazioni sulle concentrazioni di polveri effettuate allora dentro la fabbrica non sono sufficientemente affidabili per stabilire il livello di esposizione della vittima». In ogni caso sarà una decisione estremamente importante, «dalla quale dipendono parecchie decisioni per casi simili che potrebbero essere sottoposti alla Suva», conclude Charlotte Iselin.
  

Pubblicato il

06.07.2012 01:00
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