Il venerdì sera al calare della notte per gli Ebrei inizia lo Shabat. La maggior parte di loro si ritira in casa a festeggiare questa ricorrenza settimanale. È il momento in cui i Palestinesi dei Territori occupati riescono a muoversi all’interno di Israele e riescono a rientrare a casa. La cittadina di Ramla si trova vicino a Tel Aviv ed è a soli 15 minuti dall’aeroporto internazionale Ben Gurion. In questa cittadina vivono molti Arabi/Israeliani (cioè Palestinesi musulmani e cristiani con passaporto israeliano rimasti in parte nei loro villaggi d’origine dopo la creazione dello stato di Israele nel 1948 – oggi rappresentano circa il 22 per cento del totale della popolazione dello Stato israeliano). Partiamo proprio da lì con Mohammed ed un suo cugino Mahmud. «Qui viviamo bene, c’è lavoro e possiamo muoverci dove vogliamo, se volessi potrei addirittura andare in Turchia», afferma il venticinquenne Mahmud. Nel frattempo ci stiamo dirigendo verso il Sud, verso la città di Ashdod, dove ci attendono due Palestinesi. Le strade sono deserte a causa dello Shabat. «I pochi autoveicoli in circolazione sono quelli guidati da Arabi o da agenti o soldati della sicurezza», spiega Mohammed, che aggiunge: «ma anche da voi c’è così tanta preoccupazione per la sicurezza e paura degli Arabi?» Per fortuna stiamo arrivando al luogo di incontro con i Palestinesi. Come mi spiegano, essi lavorano per una ditta israeliana grazie a documenti falsi o con la carta di identità di amici Arabi/Israeliani; si occupano della costruzione di un nuovo complesso residenziale. «Gli Israeliani ci apprezzano perché eseguiamo bene il nostro lavoro, i Tailandesi e i Rumeni che ci stanno rimpiazzando a causa del conflitto non valgono abbastanza per quello che guadagnano, sono dei fannulloni e sono lenti ad eseguire i lavori», commenta Mahmud. «Qui abitano solo Russi, ma ti rendi conto che costruiamo per nuovi immigrati che non parlano nemmeno ebraico?», continua Mohammed. Infatti ad Ashdod ed Ashkelon abitano moltissimi immigrati russi arrivati da poco. I due Palestinesi infreddoliti dalla pioggia e dal vento salgono velocemente in macchina. «Vedi come stanno bene loro? Sono tutti nelle loro case o appartamenti, hanno da mangiare e possono permettersi tante cose. A noi basterebbe questo, niente di più», afferma Walid uno dei nuovi passeggeri. «Non vogliamo né la guerra né problemi con loro, si possono tenere tutto Israele se vogliono, ma a loro non basta», afferma Ibrahim il secondo passeggero. I Palestinesi dopo lo scoppio dell’Intifada non possono più lavorare in Israele, se vengono fermati più di una volta vengono incarcerati per cinque anni. «Ma se non rischio chi darà da mangiare alla mia famiglia? Mio padre ha il diabete e mia madre sta male. Gli altri fratelli vanno ancora a scuola e io sono l’unico che ogni tanto porta a casa dei soldi. Stiamo proprio male. Mia madre ha venduto tutti i gioielli ricevuti in dote al matrimonio, non abbiamo più nulla», commenta Ibrahim. Secondo i dati pubblicati dall’Ufficio di statistica palestinese, attualmente in Israele sono 15 mila i lavoratori occupati legalmente (provenienti soprattutto dalla striscia di Gaza) e circa 30 mila illegalmente, per un totale del 7 per cento della forza lavoro palestinese. Quando il muro sarà terminato i Palestinesi non potranno più lavorare in Israele e questo creerà ulteriore povertà e ciò potrebbe portare a una esplosione di violenza difficile da gestire. Inoltre le fabbriche di vestiti e scarpe ancora esistenti nei Territori occupati, che producono per il mercato israeliano, non potranno più esportare. Il viaggio prosegue, questa volta su strade alternative (la 352 e la 324) e poco trafficate, onde evitare i grandi incroci, dove normalmente la polizia è più presente. Evitiamo così di passare da Kiryat Gat e da Rahat. Per andare ad al-Khalil (Hebron) dobbiamo scendere a Sud per parecchi chilometri per poi risalire. «Così si evitano i grandi posti di blocco dell’esercito, all’entrata della Cisgiordania», spiega l’autista. Improvvisamente piomba il silenzio, una macchina della polizia è ferma dall’altra parte della strada, per fortuna ci lascia passare. Senza rendermene conto ora siamo entrati nei Territori occupati. Per me nulla è cambiato, i passeggeri ammutoliscono, viene spenta la radio. È appunto in Cisgiordania che si corre il maggior pericolo: li si può essere uccisi senza motivo. «Solo una settimana fa dei coloni hanno sparato ad una vettura uccidendo un Palestinese e ferendone altri tre», mi racconta Mohammed. «Vedi per i coloni hanno costruito questa nuova superstrada, confiscando terreni del mio comune» dice Walid. Ad un incrocio due soldati ci fanno cenno di fermarci, chiedono all’autista in ebraico i documenti dei passeggeri. Mohammed spiega ai soldati che siamo diretti a Gerusalemme con un amico svizzero. Il mio passaporto viene esaminato a lungo, i due sono increduli e imbarazzati. Ci lasciano passare senza aver controllato gli altri documenti, forse perché è Shabat. «Sia lodato Dio della tua presenza. Vedi, li hai confusi», ride Mahmud. Rallentiamo, stiamo cercando un’entrata al villaggio palestinese. «Ogni giorno dobbiamo riaprirci dei varchi tra le montagne di terra, detriti e blocchi di cemento ammassate dalle ruspe degli israeliani, che loro però richiudono puntualmente» afferma Walid. Riusciamo ad imboccare un passaggio e a passo d’uomo tra fango e sassi raggiungiamo una pista. All’entrata del villaggio stanno ricostruendo dei marciapiedi e ripristinando l’illuminazione distrutti dalle incursioni. «Slacciati pure la cintura di sicurezza. Qui non ci sono più né leggi né controlli, siamo liberi», mi dice prima di scendere Mahmud.

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10.12.04

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