«L’imputato Stephan Schmidheiny va dichiarato responsabile di omicidio volontario plurimo e pluriaggravato e condannato alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, senza attenuanti». Questa la richiesta formulata lo scorso 10 febbraio dal Pubblico ministero Gianfranco Colace al termine della requisitoria del processo Eternit bis che si sta celebrando davanti alla Corte d’Assise di Novara. Processo in cui il miliardario svizzero deve rispondere per la morte per mesotelioma di 392 persone, uccise dall’amianto che hanno respirato lavorando o vivendo vicino al tristemente famoso stabilimento Eternit di Casale Monferrato (Alessandria), gestito in prima persona da Schmidheiny tra il 1976 e il 1986.
Dunque in un’epoca in cui la pericolosità della fibra era ben nota anche all’imputato, che però scelse di portare avanti «una strategia tesa a nascondere l’evidenza circa la cancerogenicità dell’amianto e a esclusiva tutela dei propri profitti», ha affermato Colace ricostruendo in modo minuzioso e documentato le condotte tenute da Schmidheiny, sia nella gestione della fabbrica sia nel contesto internazionale, con una frenetica attività di lobbying e di disinformazione in difesa dell’industria dell’amianto e, successivamente, in difesa di sé stesso. Ha agito nonostante prevedesse l'evento «Escluderei che Schmidheiny volesse uccidere delle persone, ma si è lucidamente raffigurato la realistica prospettiva della verificazione dell’evento morte. Quello che non sapeva erano i nomi e i cognomi delle persone che sarebbero decedute e il loro numero, ma si è consapevolmente determinato ad agire ed ha accettato l’eventualità della causazione dell’offesa», ha spiegato il magistrato motivando l’aggravante della cosiddetta “colpa cosciente”, tipica di chi agisce nonostante la previsione dell’evento. Accertato che «i 392 mesoteliomi sono attribuibili all’imputato», come illustrato, sulla scorta di corpose indagini epidemiologiche, studi e dati scientifici dalla collega Mariagiovanna Compare (che con lui sostiene l’accusa) e dopo aver descritto nell’udienza precedente (area ne ha riferito) le pessime condizioni igienico-sanitarie della fabbrica, la mancanza di misure di protezione dalle polveri per gli operai, le politiche di disinformazione dei lavoratori e dei cittadini e un’attività industriale irrispettosa dell’ambiente circostante, Gianfranco Colace, nell’ultima parte della sua requisitoria, ha illustrato alla Corte (presieduta dal giudice Gianfranco Pezone) le molteplici ragioni per cui «delle 392 morti, che la miglior scienza ci dice essere state causate dall’amianto, deve rispondere l’imputato». Lo ha fatto citando documenti, rapporti, appunti e verbali di riunioni sequestrati in fase d’indagine dalla Procura di Torino e che rappresentano un materiale prezioso per descrivere «l’atteggiamento psicologico» dell’imputato, perché quegli atti raccontano le sue parole, le sue decisioni e il suo «ruolo preponderante» a ogni livello. Gli affari prima della salute di operai e cittadini «Stephan Schmidheiny era al vertice di ogni decisione strategica, controllava e governava i massimi sistemi così come le singole società», ha affermato il magistrato, soffermandosi a lungo in particolare sul ruolo centrale avuto da lui e dalla sua famiglia nel cartello europeo dell’amianto e in quello mondiale: già a partire dal 1929 con la costituzione a Zurigo della Saiac SA (Società associati industria del cemento-amianto, primo cartello europeo), in cui l’imputato è stato attivo in prima persona a partire dall’inizio degli anni Settanta. Proprio in coincidenza con l’affiorare di un nuovo tema: quello sanitario. Colace formula dunque un quesito centrale: «Un nuovo tema che viene posto in che termini? Ponendo al centro la salute dei cittadini o i propri affari?». Il magistrato risponde citando tutta una serie di atti e decisioni che chiamano in causa direttamente Schmidheiny e i suoi uomini più fidati. Cita per esempio una conferenza della Saiac tenutasi a Londra nel 1971, un momento critico per l’industria dell’amianto perché la cancerogenicità della fibra comincia a diventare di dominio pubblico. «È questo che preoccupa il cartello dei produttori». E anche i dirigenti dell’Eternit, che si scambiavano articoli del New York Times in cui si parla dell’epidemiologo americano Irving Selikoff che per primo all’inizio degli anni 60 dimostrò scientificamente la relazione tra amianto e mesotelioma. Una relazione di cui a Londra «tutti erano consapevoli ma si lamentavano» dei “gravi attacchi all’amianto” e dei “governi che ci vogliono costringere a limitarci”. Ci fu un confronto anche sulle prime decisioni di messa al bando in alcuni Paesi, come per esempio la Svezia: «Schmidheiny ipotizzò addirittura di trascinare il governo svedese in tribunale», ha ricordato Colace. Dagli atti della conferenza emerge con chiarezza la scelta di difendere l’amianto con strategie comuni tese a “minimizzare le informazioni relative alla sua tossicità”. «Insomma – ha osservato il magistrato –, il problema è il “problema salute”. Non c’è traccia di preoccupazione per le sorti delle persone». La strategia difensiva dell'amianto Il nuovo contesto obbliga però il cartello ad assumere una nuova forma: oltre che ad occuparsi (come tutti i cartelli) di controllo dei prezzi, coordinamento delle esportazioni e dell’approvvigionamento della materia prima, ora deve occuparsi anche della questione sanitaria. E lo fa elaborando una strategia difensiva dell’amianto nell’ambito di una serie di riunioni annuali segrete denominate “Tour d’horizon” (tra il 1977 e il 1981) a cui partecipano i più grandi produttori al mondo, tra loro anche Stephan Schmidheiny con due suoi fedelissimi. Prendono atto che ormai “ci si sta muovendo verso regolamentazioni più severe”. Ma siamo al massimo della produzione e abbandonare non si può. In difesa dell’amianto viene allora elaborata la strategia chiamata “dell’utilizzo in sicurezza”. «Si sceglie insomma di continuare a usare il materiale mortale senza far nulla per la protezione dalle polveri», sintetizza il Pm. Viene poi organizzata attività di lobbying sulla Comunità europea e sui governi nazionali, perché un abbandono dell’amianto è “fortemente probabile entro i prossimi cinque anni”. Sono dunque necessari “sforzi considerevoli”. «Sforzi – ha spiegato Colace – non per sostituire impianti obsoleti o per la messa in pratica di misure di sicurezza ma per agire su sindacati, datori di lavoro, clienti e politici». Ed è un fedelissimo di Schmidheiny, a illustrare le attività che il cartello sta portando avanti per frenare l’avvento di norme più restrittive in Europa. «Non so se ci sono riusciti ma lo sforzo l’hanno sicuramente fatto», ha osservato Colace, attirando l’attenzione su un passaggio «agghiacciante» del verbale dell’ultimo Tour d’Horizon, in cui si scrive che “nella maggior parte dei Paesi in via di sviluppo la rilevanza della questione sanitaria non è al momento preoccupante”. «Non c’è insomma preoccupazione per la salute ma per come la questione possa influenzare gli affari», constata Colace, ricordando come la Eternit la «faccia da padrona» anche nella Asbestos International Association (Aia, Associazione per la protezione del mercato dell’amianto nella Comunità europea), in seno alla quale (negli anni 77-78) si organizza la disinformazione scientifica per screditare Selikoff, si discute di come rivedere l’etichettatura dell’amianto e la relativa dicitura (per esempio se fosse il caso di fare un riferimento ai “pericoli per la salute”). Dentro il cartello la biografia di Schmidheiny «La storia del cartello è la storia dell’imputato: lì dentro c’è la sua biografia», ha tuonato Colace. La biografia di un uomo che nel 1976 «era il re dell’amianto in Europa», che agiva secondo la «logica del puro profitto» e che era «perfettamente consapevole della pericolosità dell’amianto e di tutte, di tutte le conseguenze che può avere». E questo perlomeno da quando si è manifestato alla Conferenza di Neuss nel giugno 1976, «presentandosi per quello che è, cioè il capo delle società Eternit e il padrone che dà direttive a tutti». E colui che spiega agli alti dirigenti riunito nella città tedesca come “il rischio di contrarre mesotelioma, cancro polmonare e asbestosi aumenti con le alte concentrazioni di polveri di amianto”. «È così che si rappresenta l’imputato», sottolinea Colace facendo anche riferimento alla raccomandazione conclusiva fatta da Schmidheiny: “È decisamente importante che non si cada ora in forme di panico. Questi giorni di convegno sono stati determinanti per i direttori tecnici, i quali sono rimasti scioccati. Non deve succedere la stessa cosa con i lavoratori”. «È insomma Schmidheiny in persona che gestisce le informazioni da divulgare a lavoratori e cittadini. Ed è lui che mette in discussione gli scienziati, per puro interesse economico e non certo per motivi scientifici», osserva il magistrato. E anche nel secondo convegno di Neuss del dicembre 1976, un “corso di addestramento per tecnici”, Schmidheiny non si smentisce. Qui vengono elaborate e impartite direttive su come affrontare le “organizzazioni sindacali, mediche e statali italiane”, per esempio sul tema della polverosità: “È consigliabile riferirsi alla legislazione tedesca, che è meno restrittiva” rispetto ai limiti di polverosità indicati dall’Osha, l’ente americano che si occupa di sicurezza sul lavoro. Limiti inaccettabili poiché “l’industria dell’amianto ha risposto che non potrebbe adeguarsi e sarebbe obbligata a chiudere”, si legge nelle note di un partecipante. Nel medesimo “corso” si raccomanda anche di “dissociarsi in ogni discussione dal pensiero del dottor Selikoff” e, addirittura, di “evitare di citarlo”. Era perfettamente consapevole della pericolosità dell'amianto E in riferimento al ruolo di primo piano avuto in Eternit Italia, che Schmidheiny prende in mano nel 1976 con una task force tutta svizzera e con pieni poteri decisionali e di spesa, Colace rincara: «Ha sempre agito, sia durante l’attività sia dopo la chiusura della fabbrica, con un solo obiettivo: il profitto d’impresa. Era pienamente consapevole della pericolosità dell’amianto e della breve sopravvivenza della sua industria, ma si è barcamenato per 10 anni, dieci anni di troppo. Ha fatto in modo di produrre quanto più possibile fino al 1986 e successivamente ha fatto di tutto per i ridurre i danni a sé stesso». E ancora: «Schmidheiny è un uomo nato dentro il potere, ma nessuno gli ha insegnato a gestire un disastro che investiva tutti i produttori», ha affermato Colace ricordando anche i mandati rivestiti dal magnate in colossi dell’economia elvetica quali Brown Boveri, Ubs, Swatch e Swissair, nonché la sua «amicizia» con l’ex Consigliere federale (dal 2004 al 2010) Hans-Rudolf Merz, «suo consigliere per la nomina degli alti dirigenti delle sue società». Con gli atti descritti e le parole pronunciate, praticamente «Schmidheiny ha confessato», ha concluso con efficacia Colace, stigmatizzando infine anche il comportamento dell’imputato successivo alla chiusura della fabbrica, in particolare con l’organizzazione di una comunicazione professionale volta a occultare la responsabilità dei massimi vertici aziendali, cioè di sé stesso, in vista delle possibili cause giudiziarie. “Tenere la questione a livello locale, con toni i più bassi possibili, focalizzarsi sugli stabilimenti Eternit italiani, evitando ogni riferimento al gruppo svizzero e principalmente ai suoi azionisti”, erano gli obiettivi dell’operazione, affidata alla società milanese di pubbliche relazioni Bellodi, che mise in piedi una sorta di intelligence per monitorare la stampa locale italiana (ma pure quella svizzera, in particolare i giornali di Unia che scrivevano della vicenda) così come per spiare le mosse dell’associazione delle vittime di Casale Monferrato e, più tardi, quelle dei magistrati torinesi. Un’azione di spionaggio proseguita fino al 2005, quando l’allora sostituto procuratore di Torino Raffaele Guariniello ordinò un blitz delle forze dell’ordine negli uffici della Bellodi dove vennero sequestrati numerosi documenti rivelatori. E di capitale importanza per i processi che ne sono seguiti, compreso questo che si sta celebrando a Novara e che proseguirà nelle prossime settimane con gli interventi degli avvocati di parte civile e con le arringhe difensive.
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