Per chi suona la campana

Le campane non annunciano, come ha scritto qualcuno in modo poetico, le ore del giorno e della notte, la vita e la morte, le feste e i pericoli, le guerre e la pace. Per far questo bastano e avanzano i giornali, i libri, la televisione, internet. Il suono delle campane dice invece qualcosa di più importante, così importante da risultare sconvolgente e perfino sgradito nell’epoca in cui è stata decretata la fine della storia.


La tradizione dell’Angelus, la campana che suona all’alba, a mezzogiorno e al tramonto, è giunta fino a noi dalla pratica liturgica delle abbazie benedettine. I monaci si riunivano otto volte al giorno in chiesa per cantare i Salmi, mentre ai conversi – i componenti della comunità addetti a lavori agricoli e normalmente illetterati – era richiesto soltanto, al rintocco della campana tre volte al giorno, di interrompere un momento l’attività per ripetere le parole dell’angelo a Maria e la risposta di quest’ultima all’angelo. L’annuncio che il messia sognato dai profeti sta per nascere significa che la storia ha cessato di essere circolare, sempre le stesse ingiustizie, le stesse sofferenze, lo stesso pianto, che la storia ha una direzione, va verso la salvezza, che c’è un destino per cui vale la pena spendersi. Significa che ogni ora successiva può essere migliore della precedente, che non ci si deve rassegnare al presente, che bisogna adeguare il presente al futuro, non il futuro al presente.


Poi è arrivato l’orologio a scandire le ore della nostra giornata, l’entrata e l’uscita dalla fabbrica, le pause, il riposo, il risveglio. E a trasformare il tempo da luogo della speranza in opportunità di guadagno. Il nobile veneziano che, per ridurre il rischio, acquistava la ventiquattresima parte di una galea in partenza per l’oriente, ne attendeva con ansia il ritorno calcolando il profitto che avrebbe ricavato. Ma se la nave faceva naufragio, il marinaio imbarcato perdeva non un ventiquattresimo del valore della galea, ma la vita. Se il tempo scandito dall’orologio è il tempo del tuo guadagno sulla mia vita, il tempo in cui realizzi il tuo piccolo paradiso in terra, allora esigo una parte di questo paradiso: orario di lavoro sopportabile, una paga sufficiente per vivere, assistenza in caso di malattia, istruzione per i figli, la pensione. È il patto sociale che sta alla base della modernità.


Ma se una delle parti viene meno a quel patto, se la ricchezza prodotta dalla società invece di venir distribuita a tutti si travasa sempre più dal basso verso l’alto, se negli Stati Uniti i salari medi dei lavoratori dal 1979 ad oggi sono aumentati del 5% mentre nello stesso periodo la produttività del lavoro è cresciuta del 75%, se in Europa i governi fanno a gara nel ridurre i diritti del lavoro e a erigere muri per tener lontani i più poveri dei poveri, se Renzi in Italia si vanta di aver reso più facili i licenziamenti e in Svizzera il partito socialista non batte ciglio sulla diminuzione delle pensioni proposta dal suo ministro Berset, insomma se il paradiso in terra torna a essere riservato a pochi, allora che senso ha continuare a credere nel patto sociale, nella democrazia, nella cultura, nei valori del cosiddetto occidente? Al sinistro ticchettio degli orologi dell’ingiustizia è allora preferibile il dolce rintocco della campana dell’Angelus.

Pubblicato il

19.11.2015 14:46
Giuseppe Dunghi