La tendenza a puntare il dito contro gli stranieri per spiegare i problemi della società perde ogni credibilità quando si considera la crisi nell’ambito delle cure a persone vulnerabili, dove la principale preoccupazione è la mancanza di personale qualificato.

 

Senza lavoro migrante, la situazione difficile del settore in tanti paesi occidentali sarebbe addirittura drammatica, come lo è già nei paesi dell’Europa centrale e orientale, da dove emigrano tante persone per prendersi cura di anziani o bambini più ricchi. Detto in altro modo, non si può risolvere la crisi attuale andando a prendere sempre più forza lavoro altrove – perché così si va ad esacerbare la crisi nei paesi di provenienza.

 

Per provare a risolvere i problemi, bisogna innanzitutto capire cosa non va. Per cogliere la prospettiva di chi lavora nelle cure di lunga durata su cosa  siano delle “buone cure”, abbiamo condotto una ricerca partecipativa, basata su discussioni di gruppo nelle tre aree linguistiche svizzere. Le discussioni hanno confermato che il personale è frustrato dalla mancanza di tempo per svolgere il lavoro come sa di doverlo fare. Lavora spesso oltre quello che è prescritto, soprattutto per poter interagire con i residenti. E di conseguenza, l’esaurimento porta tanti dipendenti ad ammalarsi, al burnout e, infine, a ridurre la percentuale o a lasciare il proprio posto. Il che tende ad aumentare ulteriormente la pressione su chi rimane, alimentando un preoccupante circolo vizioso

 

Il problema non è marginale, ma sistemico. Certo, un aumento dell’offerta formativa è necessario; ma se la bottiglia è forata, a cosa serve riempirla in continuazione? Anche un incremento salariale, per tutte le professioni coinvolte, sarebbe sia legittimo, sia essenziale – ma al tempo stesso insufficiente.

La frustrazione del personale riguarda proprio la contraddizione soffocante tra, da un lato, il lavoro prescritto, sempre più standardizzato (per controllarlo e limitare l’aumento dei costi) e il lavoro reale. Nella pratica, chi si occupa di altri è guidato da quello che la filosofa Annemarie Mol chiama la logica della cura, che implica di rispondere ai bisogni quando emergono, facendo leva sull’esperienza e la competenza di chi svolge il lavoro.

La risposta alla domanda “come svolgere delle cure di qualità”, sarebbe: lasciateci fare il nostro lavoro! 

 

È per questo motivo che abbiamo deciso, con Unia, di sviluppare un Manifesto delle cure (si legga a pagina 5), redatto da un gruppo di personale medico-sociale con l’appoggio di ricercatori, che prova proprio a rilevare questa sfida del cambiamento.

 

È essenziale partire dall’intelligenza di chi lavora nel settore per proporre soluzioni. Il Manifesto articola una visione: nel 2035, le cure in Svizzera sono organizzate in un modo che rispondano ai bisogni delle persone, consentendo loro di partecipare attivamente alla società, nel pieno rispetto della loro dignità. In questa nuova realtà, il personale è felice e lavora in buone condizioni. Ma non solo: gioca anche un ruolo centrale nell’organizzazione del settore.

 

Questo è il risultato di un processo di organizzazione e mobilitazione collettiva, iniziato nel 2025. Il nodo si trova qui: per realizzare questa visione, ci vogliono un movimento collettivo e la costruzione di alleanze sociali, per esempio con i pensionati.

 

Un elemento chiave delle discussioni era come superare la reticenza di chi teme di alzare la voce per paura di danneggiare le persone curate. La risposta? Di fronte ai problemi del settore, sarebbe proprio tacere che avrebbe le conseguenze più dannose.


Pubblicato il 

13.09.24
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