Parole come argilla

Se si dovesse descrivere con una frase che cosa direbbe? Mah... che sono un lavoratore linguistico, nel senso che lavoro con le parole. Quando insegno, lavoro con le parole. Quando faccio ricerca, e a maggior ragione quando scrivo libri, è anche un modo di rivelare, svelare la mia idea, oggi, di intellettuale. L’intellettuale, secondo me, è sempre stato un lavoratore linguistico. Il problema è che oggi i lavoratori linguistici hanno assorbito quelle che erano le specificità degli intellettuali di un tempo. In un certo senso il lavoro intellettuale ha perso la sua aurea di autonomia e di capacità di proiettare nel futuro rappresentazioni, immagini di una società diversa, proprio perché se noi guardiamo ai processi di produzione odierni sono tutti permeati da attività che sono fortemente comunicative e basate sulla simulazione e sulla rappresentazione. Quindi, penso che quelli che un tempo si chiamavano intellettuali, oggi sarebbe bene chiamarli lavoratori linguistici per sottolineare il problema che si pone: come riconquistare quella che un tempo era una peculiarità dell’intellettuale, cioè un’autonomia in quanto produttori di immaginari, che è un’autonomia rispetto al capitale. Questo è il problema di oggi. Che cosa è veramente la produzione intellettuale: lavoro solitario, di genio, di scuola di bottega? È sicuramente un lavoro in solitario, come però milioni di persone, oggi, lavorano nella stragrande maggioranza dei casi davanti a uno schermo... e lavorano da soli dentro un’organizzazione della produzione di tipo reticolare e comunicativo dove è forte la presenza della circolazione dei saperi, l’interconnettività, eccetera. Da una parte, quindi, è una persona che lavora da solo, d’altra, però, lavora immerso in una rete fittisima di flussi d’informazioni, sapere e conoscenza. Il problema è quello di rendere la sua solitudine una forma del divenire singolare della collettività. Qual è il ruolo dell’intellettuale? Un tempo era appunto il ruolo di uno, proprio perché parzialmente staccato da quelle che erano delle contingenze e dall’immediatezza del qui e ora, che era nella posizione di poter costruire rappresentazioni, prefigurazioni, orizzonti, strategie, mondi... Ed è proprio quello che è stata la modernità, cioè una grande fucina di racconti, storie e proiezioni. Questo è stato detto più volte ed è venuto meno con la crisi della modernità e con l’entrata nella «postmodernità», proprio perché il capitale ha fatto sua la produzione immateriale, mentale, l’attività dell’intelletto, l’ha messa al lavoro per sé. Il ruolo odierno dell’intellettuale è di capire questa sua perdita di aureola e di singolarità e poi rendersi conto che essere intellettuali oggi significa pensare politicamente e pensare sempre a come, dentro questa grande macchina linguistica che produce valore, deve agire come lavoratore e non come uno che ragiona sui lavoratori o per i lavoratori. Esiste un legame tra intellettuali e potere? Certamente. Proprio dentro questa forma postfordista della società l’intellettuale serve il potere come lo serve il «pierre» o il truccatore o l’organizzatore di grandi eventi come Costanzo, Sgarbi,... cioè persone che sono organiche. In un certo senso quello che Gramsci diceva a proposito dell’intellettuale organico si è realizzato. Solo che Gramsci ne parlava rispetto a un partito, oltretutto di lotta e comunista. Oggi si può parlare di intellettuali organici nel senso che sono organici al potere, e quindi sono un po’ come l’equivalente dei truccatori nell’industria cinematografica. Sono quelli che ti mettono quattro strati di cerone linguistico, fatto di bugie, modi di dire, immagini alle quali si prestano perché ci guadagnano. La cultura conta nelle decisioni politiche? Penso di sì. Naturalmente bisogna definire che cosa s’intende per cultura, perché quando è messa al servizio delle strategie del potere, comunque c’è molta scienza e quindi anche molta cultura proprio laddove noi pensiamo che questa sia invece totalmente assente. Comunque la cultura quando è messa al servizio del potere è un’impresa, una vera e propria industria. Ed è pure vero che oggi confrontandosi col ceto politico di soli trent’anni fa sembra di avere a che fare con dei «barbari»; di certo tutto congiura in questo senso, ma credo che non bisogna mai sottovalutare le armi culturali, anche quando queste sono messe al servizio del potere. L’etica dovrebbe essere in funzione della politica o la politica in funzione dell’etica? Dipende. L’etica ha due accezioni: da una parte significa la buona vita, la vita giusta e quindi i valori dell’equità, libertà e il rispetto dell’altro... però etica ha anche un diverso significato, etimologicamente parlando, che è quello di abitualità, ricorrenza. Io credo che il problema oggi sia quello di costruire e produrre delle nuove abitudini e dei nuovi luoghi comuni. Una delle cose che ha fatto vincere la destra negli ultimi 2o-25 anni – vincere nel senso che l’ha resa egemonica di fatto – è stato precisamente quello di lavorare sui luoghi comuni, basti pensare slogan tipo: «meno Stato», «riduzione delle imposte», al fatto che «l’amministrazione pubblica è abitata da parassiti», o a che «gli immigrati vengono qui e ci rubano le donne» o «ci rubano il lavoro». Sono dei luoghi comuni che hanno fatto «etica», nel senso che sono stati eletti a parole d’ordine, obiettivi e strumenti di lavoro politici. A me sembra che la sinistra, su questo piano, non abbia prodotto nuovi luoghi comuni, come invece è stato in tutta l’epoca del fordismo. Pensiamo per esempio al «pieno impiego», «lo Stato sociale»... Luoghi comuni, perché abituali del pensiero, dell’agire e del percepire della gente. Era normale considerare l’azione dello Stato in termini redistributivi verso i poveri. Oggi, niente di tutto questo, quindi vuol dire che manchiamo di luoghi comuni, cioè di luoghi di aggregazione su delle cose che fanno parte di un sentire comune. Il silenzio degli intellettuali, ammesso che esista, è anche quello degli intellettuali organici del potere economico? Bisogna stare attenti, perché comunque gli intellettuali del potere economico non sono per niente silenti. Anzi, sono molto attivi nel produrre dottrine, analisi e studi che tutto sommato vanno nel senso del rafforzamento del potere. È il campo che seguo più da vicino e cerco di conoscerlo. I professori, gli scrittori mai come in questi ultimi vent’anni hanno prodotto modelli che sono stati incentrati su un approccio quantitativo dei problemi sociali. E questa quantificazione della verità, o meglio, questa verità verificata con criteri quantitativi come ad esempio «aumento in percentuale del prodotto interno lordo, della occupazione, ecc.» ha permesso di deresponsabilizzare socialmente questi stessi intellettuali o produttori di conoscenza. C’è stato un processo di deresponsabilizzazione sociale in ambito economico e anche sociologico. Adesso siamo molto sguarniti su quel fronte e dobbiamo restituire una forza a qualcosa e a un modo di guardare il mondo, che non sempre è scientificamente dimostrabile, ma dimostrabile a partire dai sentimenti e dal bisogno di giustizia della gente. Quando di parla di globalizzazione, si parla di qualcosa di completamente nuovo rispetto alla tradizione? Sì, da una parte, nel senso che sostanzialmente la globalizzazione, al di là di quelli che sono gli aspetti avvenuti in passato – penso alla fine dell’Ottocento –, come la circolazione dei capitali, gli investimenti all’estero... ci sono addirittura degli studi che tendono a dimostrare che c’è stata più globalizzazione tra il 1870 e il 1914 che non dall’inizio degli Ottanta alla fine del Secondo Millennio. Però ciò che è radicalmente nuovo è il fatto che la globalizzazione di cui parliamo oggi è una configurazione del mondo su nuovi rapporti di forza. È vero che la caduta del Muro di Berlino – se vogliamo mettere una data – ha aperto una nuova e diversa rappresentazione di quello che è l’Altro, il Nemico o l’Amico, o gli interessi dell’uno e dell’altro, che è inedito in termini storici. Oggi, e secondo me giustamente, non si parla più di «Imperialismo» ma di «Impero». La globalizzazione ha scardinato la struttura fondante dell’«Imperialismo», cioè la gerarchia fra Stati-nazione. Dal momento in cui gli Stati-nazione sono in qualche modo assorbiti dentro le logiche finanziarie della circolazione dei capitali, dei mercati borsistici, e quindi della liberalizzazione e deregolamentazione, allora non si è più in presenza di un vero e proprio imperialismo, ma si è in presenza di una forma imperiale della globalizzazione. Il baricentro si trova negli Stati Uniti, il paese più forte o meglio dove c’è una produzione di valore più forte, ma allo stesso tempo dove quelli che noi un tempo vedavamo come paesi o periferie, luoghi fuori dalle cittadelle dello sviluppo in realtà sono diventate parte integrante di questo «Impero globale». È nuova la dialettica Dentro-Fuori, Centro-Periferia, Nord-Sud, che era tipica dell’imperialismo e della fase della globalizzazione precedente. Internet come strumento o come illusione? Internet è uno strumento formidabile che deve ancora espletare tutte le sue potenzialità e che però ha già dimostrato di essere comunque un luogo di sperimentazione, un laboratorio di soggettività interessante. Io trovo che Internet sia l’equivalente di quello che fu la televisione in passato. Non dico solo come centro di giochi economici, perché la soggettività anche agonistica la si va a cercare proprio nei luoghi dove maggiore e più intenso è lo scontro e gli interessi economici e politici, ma come luogo di produzione di soggettività nuove, che sono una forma mentale diversa, molto basata sulla fuga, sull’esodo e sull’attivo sottrarsi. Tanto quanto lo «zapping» è la modalità con la quale un certo tipo di soggettività impone ai gestori e ai canali televisivi di adeguarsi, altrettanto su Internet si ha una prima sperimentazione di una rivoluzione della soggettività che non a caso ha già prodotto la sua crisi. La crisi dell’anno scorso dei titoli tecnologici, la cosiddetta prima crisi della «new economy», è il primo esempio storico. Internet più che illusione è metafora della società ad alta comunicazione. Internet è la punta di questo nuovo iceberg. E la crisi della «new economy» è una crisi che svela la difficoltà crescente che il capitale ha nel produrre in modo più o meno proporzionale a ciò che può vendere. Una grande crisi da eccesso e da sovraproduzione di informazioni o di «beni informazionali» e a fronte di un popolo di fruitori, di consumatori di informazione che ha posto il proprio corpo come limite all’espansione del capitale. Il limite all’espansione del «capitale informazionale» è precisamente il corpo. Un corpo fatto di 24 ore tra sonno e veglia e che ha una sua finitezza. Secondo me quello che internet sta dimostrando è il contrario di quello che si pensa normalmente: il ritorno della materialità del corpo fisico della società, nel senso della sua barriera all’espansione del capitale. Chi detiene lo strumento che forma l’opinione? Sicuramente i media, costretti anche a tener conto di quello che sono, nel bene e nel male, le opinioni che si formano in questo grande caos che è l’agire comunicativo e la società della comunicazione. Però direi che i nuovi media, in particolare la televisione – ma tutto ciò che è venuto dopo la televisione – dimostrano che probabilmente siamo entrati in un periodo storico in cui non si può più pensare ad essi solo come al «Grande fratello», o a un grande diavolo che manipola l’opinione pubblica. Mi sembra che ci sia l’inseguimento da parte dei media di qualcosa che non riescono mai a catturare definitivamente. Il primo passo in questa direzione e in questa crisi della visione classica dei media, e cioè nel senso di qualcosa che stabilisce un rapporto asimmetrico fra chi è dietro lo schermo e chi lo guarda, è stato mosso dai primi «talk-show» e da queste trasmissioni, che per quanto siano assurde (la coppia in crisi che parla delle cose più intime, l’ostentazione della sfera privata), sono l’indicatore di una trasfigurazione del rapporto fra pubblico-privato e privato-pubblico. Certo perversa, ma tale proprio perché contiene qualcosa che i media non riescono più a fagocitare in modo univoco e unilaterale e quindi asimmetrico.

Pubblicato il

14.06.2002 02:00
Lorenzo Lepori