A chi trent’anni dopo si chiede che cosa sia rimasto di quel favoloso 25 aprile portoghese si può rispondere con una sola parola: la democrazia. E non è davvero poco, anche rispetto ai sogni di costruzione di una società diversa, «fondata – come avrebbe recitato l’articolo 1 della Costituzione del 1976 – sulla dignità della persona umana e sulla volontà popolare ed impegnata nella sua trasformazione in una società senza classi». Costituzione che all’articolo 2 poneva allo Stato il compito di «assicurare la transizione verso il socialismo mediante la creazione di condizioni per l’esercizio democratico del potere da parte delle classi lavoratrici». Una finalità che venne tolta dalla Magna Carta portoghese solo nel 1995, ma che era stata dimenticata da tempo. Sarebbe impossibile oggi ripercorrere quegli eventi, rivivere le passioni suscitate da quegli improbabili garofani nelle canne dei fucili dei soldati, ma anche ricordare i timori e le paure suscitate dalla rivoluzione dei militari se si dimenticasse che erano gli anni della guerra fredda. Il Portogallo è nella Nato e i rivoluzionari in divisa spaventano più dei civili, perché sono appunto i militari il tradizionale baluardo del potere borghese quand’è pericolante. Se l’esercito viene a mancare, chi si opporrà al pericolo rosso? L’originalità della rivoluzione portoghese sta appunto nel ruolo delle forze armate. Il fascismo portoghese era malato da tempo, consunto dalle guerre coloniali e dalla repressione interna, dalla corruzione e dalla povertà, ma ancora sufficientemente forte per resistere a un’opposizione costruita con mezzi legali; solo un atto di forza, almeno nel breve termine, avrebbe potuto decretarne la fine. E solo i militari avrebbero potuto prendere l’iniziativa. Ma come mossero i primi passi? Il disagio all’interno delle Forze Armate, alla vigilia del 25 aprile 1974, è vecchio di anni. Se vogliamo trovare una data, si può risalire al 1961, quando l’esercito indiano si impossessò dei possedimenti di Goa e Damao, che Lisbona aveva appunto in India. Salazar, rimproverò ai comandanti di non essere morti sul posto, li accusò di vigliaccheria, imprigionandoli e destituendoli dall’esercito. Quell’episodio segna l’inizio del disfacimento dell’impero coloniale portoghese e nel contempo spinge le Forze Armate alla presa di coscienza del ruolo di capro espiatorio che il regime affibbia loro a giustificazione del proprio fallimento. Saranno poi le guerre in Africa, in Angola, in Guinea, in Mozambico, guerre che l’esercito si rende conto di non essere in grado di vincere, a portare le Forze Armate a misurare fino in fondo l’abisso, non solo militare, a cui sono destinate. Liberatisi della retorica patriottarda, gli ufficiali, chiamati a ragionare sul proprio futuro, si rendono conto che, in ultima analisi, mettono quotidianamente a rischio la loro vita a favore delle imprese che sfruttano le materie prime delle colonie, a favore di quanti, banchieri e industriali, su queste materie accumulano ricchezze. Denunce e concetti, spesso d’ispirazione marxista, che troveremo nel documento “Il Movimento, le Forze Armate e la Nazione”, apparso agli inizi del 1974. Conosciuto poi come “il primo manifesto dei capitani”, il documento indica che gli autori hanno imboccato una via senza possibilità di ripiegamento. Per risolvere i gravissimi problemi posti dalle guerre coloniali, dalla coercizione interna, dalla crisi economica, è indispensabile, scrivono «ottenere a breve scadenza una soluzione per il problema delle istituzioni nel quadro di una democrazia politica». I vertici del potere cercano di scongiurare la rivolta che si annuncia ricorrendo ai metodi di sempre: la repressione. Ma ormai il seme della rivolta ha attecchito. Anche nei ranghi di più alto grado: i generali Costa Gomes, capo delle Forze Armate, e Antonio de Spinola, vice-capo dello Stato Maggiore, si dissociano dalle scelte governative. Verranno arrestati il 14 marzo. Due giorni dopo si ribella una guarnigione militare della regione di Lisbona. Il sollevamento fallisce, ma per i responsabili dell’Mfa ( il Movimento delle Forze Armate che nel frattempo si era dato una struttura) è il segnale che i tempi sono maturi. Sarà sufficiente agire con rapidità e nel massimo segreto per cogliere di sorpresa i servizi segreti, militari e civili. Il segnale della rivolta viene dato dalla diffusione su una delle principali emittenti radiofoniche, (la cattolica Radio Renascença) della canzone “Grandola Vila Morena” allora proibita dal regime. Sono esattamente le 00.29 del 25 aprile 1974. Un minuto dopo le prime truppe escono dalle caserme occupando i punti principali di Lisbona. Il primo comunicato alla nazione dell’Mfa viene diffuso alle 4.20. È un invito alla calma, un’esortazione a evitare qualsiasi spargimento di sangue. Alle 8.30 la radio nazionale comincia a trasmettere per la prima volta i comunicati dei rivoltosi. Contrariamente alle esortazioni, la popolazione non resta chiusa in casa, ma a poco a poco invade le strade. La chiamano la rivoluzione dei garofani. La cronaca, o leggenda che sia, poco importa, narra che la prima persona a regalare i fiori ai soldati, che li infilano nella canna dei fucili, sia stata una cameriera di un ristorante, Celeste Ceiros, che aveva comprato i garofani per addobbare il locale. Contemporaneamente comincia il fuggi-fuggi dei ministri. Il capo del governo Marcelo Caetano ed altri ministri si rifugiano nella caserma della Guardia Nazionale. Sono le 11.30 e comincia un’estenuante trattativa che si conclude solo alle 19.30 con la resa di Caetano. L’Mfa diffonde un ennesimo comunicato con cui annuncia la costituzione di una Giunta di Salvezza Nazionale, che dovrà traghettare il Paese verso le elezioni generali in vista della creazione di uno Stato democratico. A capo della Giunta viene chiamato il generale Antonio de Spinola. Gli unici incidenti con vittime della giornata si verificano in serata quando la folla circonda la sede della Pide, l’odiata polizia segreta. Cecchini sparano sui dimostranti, uccidendone quattro. Sono le ultime vittime di un regime durato cinquant’anni, abbattuto in meno di 24 ore da alcune migliaia di uomini. Seguono mesi di ubriacatura democratica, qualsiasi sogno sembra sul punto di realizzarsi, anche quello di spogliare latifondisti, industriali e finanzieri delle loro ingenti ricchezze, per ridistribuirle al popolo. «Mfa Povo» è lo slogan. In nome del popolo si procede alla nazionalizzazione di imprese e banche, dei servizi e delle risorse fondamentali del Paese. In nome del popolo Vasco Gonçalves diviene il primo capo di governo comunista dell’Europa occidentale. Non poteva continuare. Un anno dopo si tengono le prime elezioni libere e democratiche. A poco a poco, l’opposizione interna e le pressioni internazionali (vinto un ultimo tentativo di golpe dell’estrema sinistra guidata da Otelo de Carvahlo) riconducono il Portogallo nell’alveo dell’Occidente capitalista, anti-comunista. Non ci saranno i soviet lusitani, ma il fascismo sarà stato sconfitto.

Pubblicato il 

23.04.04

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