Palestina

Mentre nel fine settimana delle elezioni si sono raggiunti vertici addirittura artistici nel compilare le schede di voto distribuendo le preferenze ai candidati migliori (Chi saprà limitare davvero il numero dei frontalieri, Gobbi o Savoia? Chi darà la giusta precedenza ai ticinesi nei posti di lavoro, Regazzi o Vitta? Chi sarà capace di ottenere da Berna un numero maggiore di guardie di confine, Pinoja o Bertini? Chi riuscirà a sottrarre alla burocrazia bernese i nostri rustici, Dadò o Mattei? Chi userà finalmente il pugno di ferro contro la malavita? Chi saprà far venire da noi i ricchi investitori stranieri? Chi ci ridurrà le tasse?), ora si tratta di controllare se gli eletti manterranno le promesse.

 

Perché non è detto che la destra dalla parte della gente, la destra moderata, la destra nazista, il centrodestra, la destra ecologica, la destra-destra tutte insieme avranno il coraggio di congelare di nuovo i ristorni ai frontalieri, ridurre i loro stipendi, reintrodurre i contingenti per i lavoratori esteri, assumere tutti i disoccupati indigeni, chiudere i centri per gli asilanti, trattare a muso duro con la nazione a sud e costruire finalmente il muro di separazione al confine di Chiasso.


C’è uno Stato che è riuscito a fare bene tutte queste cose: Israele. Ha eretto non uno ma molti muri di separazione con la Palestina occupata, riservandosi però il diritto di gestirne l’anagrafe, controllare con posti di blocco dell’esercito i movimenti degli abitanti, prelevarne i dazi doganali e confiscarne i terreni migliori. E anche di più, come a Hebron, dove i coloni israeliani gettano immondizie sulla strada in cui si svolge il mercato palestinese, costringendo l’amministrazione cittadina a tendere delle reti di protezione.

 

O come nel villaggio di At-Tuwani sulle colline a sud della città, sede di una scuola  frequentata dai bambini dei villaggi vicini, che devono essere scortati ogni giorno da volontari internazionali perché presi regolarmente a sputi e sassate dai coloni e dai loro figli. O come nel campo profughi di Al-Aida a Betlemme, la cui scuola gestita dall’Onu ha il portone in ferro trapassato dalle pallottole delle pattuglie israeliane che entrano nel campo a loro piacimento.


O come a Qalqilya, città palestinese di 55.000 abitanti intorno alla quale è stato costruito un muro imponente che l’ha separata definitivamente dal suo territorio coltivato, collegata all’esterno solo da un’esile strada. All’interno case appressate l’una all’altra, senza verde. Nei pressi del muro, il punto di passaggio dei frontalieri. Braccianti agricoli, muratori, scalpellini, piastrellisti, camerieri, giardinieri, autisti devono percorrere una specie di galleria fatta di sbarre di ferro e reti come quelle in cui vengono fatti passare i leoni e le tigri all’entrata del tendone dei circhi, controllata da metaldetector e soldati con il dito sul grilletto del fucile. Si ritrovano in tanti lì nei pressi già alle 3.30 del mattino e lottano fra di loro a chi riesce a passare prima.

 

L’amministrazione palestinese non ha potuto fare altro che installare delle panchine e delle tettoie in lamiera per assicurare un minimo di protezione. Sono in totale 93.000 i frontalieri palestinesi che lavorano in territorio israeliano. Manodopera a buon mercato che ogni mattina aspetta col cuore in gola la possibilità di guadagnarsi una giornata. A quando un filtraggio così efficace di “quelli che ci servono” ai valichi di confine ticinesi? C’è sempre qualcosa da imparare.

Pubblicato il

23.04.2015 10:26
Giuseppe Dunghi
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