Ortega strizza l’occhio alla Svizzera

La mattina di mercoledì 5 giugno scorso, il presidente del Nicaragua Daniel Ortega inviò all’Assemblea nazionale il testo della “Ley Especial” per la costruzione del grande canale interoceanico che dovrebbe unire il Pacifico e l’Atlantico, 600 km più a sud del canale di Panama. Un sogno che il Nicaragua (tasso di povertà ufficiale del 47%) ha coltivato per quasi due secoli dopo l’indipendenza dalla Spagna nel 1821. Un’opera colossale di ingegneria che entrerebbe negli annali delle “meraviglie” del XXI secolo (fatti salvi tutti i possibili “effetti collaterali”) come il canale di Suez, aperto nel 1869, e il canale di Panama, inaugurato nel 1914, furono le meraviglie dei secoli XIX e XX.

Quello stesso giorno nella Casa de los Pueblos di Managua, Ortega ricevette anche le credenziali di cinque nuovi ambasciatori. Oltre a quelli di Brasile, Canada, Kuwait e Arabia Saudita, l’ambasciatore della Svizzera Pedro Zwahlen.


Nell’occasione l’ex (e discusso) leader della guerra di liberazione sandinista degli anni ‘70, reiterò con forza il suo invito alla «comunità internazionale» in genere e in particolare ai paesi dei cinque ambasciatori a partecipare alla grande impresa che è valutata in 40 miliardi di dollari (più di quattro volte il pil del Nicaragua) ed è per ora tutta a carico di un misterioso imprenditore delle telecomunicazioni, il quarantunenne cinese di Hong Kong Wang Jing, nelle cui mani Ortega ha messo l’intera operazione-canale, cedendogli tutti i diritti possibili e immaginabili per 50 anni estendibili ad altri 50.


Ortega ebbe allora parole dolci per la Svizzera e la sua cooperazione con il Nicaragua sandinista. Poi venne al dunque: «Siamo sicuri che la Svizzera sarà interessata anche a questo grande progetto». L’ambasciatore Zwahlen ricambiò gli amorosi sensi pur mantenendosi ovviamente sulle generali ma ribadendo «l’impegno a continuare a lavorare con il Nicaragua sulla strada dello sviluppo attraverso la cooperazione bilaterale nei prossimi cinque anni».


I prossimi cinque anni che, stando al cronogramma fissato dall’accoppiata Wang-Ortega, saranno quelli che vedranno l’avvio e la conclusione del Gran Canal Interoceánico: via ai lavori entro la fine del 2014 e inaugurazione  nel 2019. Troppo poco tempo e troppo facile, probabilmente, per un’opera colossale e ancora avvolta da incognite e interrogativi, anche se il tycoon cinese si è detto «sicuro al 100%» del rispetto dei tempi e della salvaguardia di un ambiente che uscirà inevitabilmente sconvolto. Comunque la carte, dopo che il 14 giugno il parlamento ha approvato la “Ley Especial” in tutta fretta grazie ai voti della maggioranza sandinista, presto dovranno scoprirsi.


Del taglio dell’istmo per unire i due oceani parlò per primo il oonquistador Hernán Cortéz nel 1544, poi il libertador Simón Bolívar, poi il padre della patria Sandino... Nel secolo scorso Gran Bretagna, Francia e soprattutto gli Usa, le potenze coloniali allora dominanti, stilarono decine di mappe e progetti per un canale interoceanico. Finora l’unico progetto andato in porto è stato il canale di Panama, costruito dagli statunitensi dopo che nel 1903 ebbero inventato l’esistenza e l’indipendenza di un paese  fino ad allora una provincia della Colombia. Un canale per dove passa il 5% del commercio marittimo mondiale ma che ormai è “saturato” e per di più consente il passaggio solo a navi “panamax” (lunghe e larghe al massimo 292 e 32 metri). Dal 2007 è in via di ampliamento: i lavori da 5,2 miliardi di dollari dovrebbero concludersi nel ‘14 o nel ‘15.


Ora, grazie anche al relativo declino del dominio Usa nel “cortile di casa” e all’ascesa irresistibile della Cina sulla scena dell’America Latina e del mondo, sembra sia scoppiata una vera “fiebre canalera” nei paesi dell’istmo. Canali “umidi” o “secchi” (cioè per strada e ferrovia) sono in fase di progettazione o costruzione anche in Honduras, Costa Rica e Guatemala.


Il Gran Canal de Nicaragua è il più ambizioso. Ma anche il più incerto e nebuloso. Dovrebbe partire da Hound Sound Bar, nella baia di Bluefield, sulla costa atlantica, passare per i fiumi Escondido, Rama, Oyate, entrare per 80 km nel Gran Lago del Nicaragua (il lago Cocibolca, il punto critico, 8.000 kmq, la principale riserva di acqua dolce del Centroamerica), poi riprendere i fiumi Las Lajas e Brito per sboccare sul Pacifico. Un canale “umido” lungo 286 km e più capace rispetto a quello di Panama (81 km) accompagnato da due porti e due aeroporti, un “canale secco” ferroviario, un oleodotto e da zone franche. L’obiettivo: il 4% del commercio marittimo mondiale già nel ’19.


Un progetto che, come e più degli altri, è parte della grande partita a scacchi globale che si sta giocando fra Usa e Cina e potrebbe beneficiare la Cina quanto il canale di Panama beneficiò gli Stati Uniti agli inizi ‘900 quando cominciarono a emergere come potenza mondiale.
La bizzarria è che il Nicaragua, come tutti gli altri paesi dell’istmo eccetto la Costa Rica, non riconosce la Repubblica Popolare Cinese ma Taiwan. Ed è improbabile, se non escluso, che dietro Wang non ci sia il governo di Pechino. Quindi gli obiettivi della Cina – del suo soft power e della sua dollar diplomacy – sono non solo economici ma anche politici.


Ma business is business e pecunia non olet: Pechino, in via aperta o coperta, che fa affari con il Nicaragua che riconosce Taiwan; gli Usa, che considerano il Nicaragua di Ortega come parte integrante dell’ “asse del male” latino-americano – Cuba, Venezuela, Bolivia, Ecuador –  che si dicono «interessati» al progetto e pronti a parteciparvi.

Pubblicato il

23.10.2013 15:09
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