«Ora tocca ai senza lavoro»

Quella di domenica 7 marzo 2010 potrà essere ricordata come una bella giornata, sia per le lavoratrici e i lavoratori di questo Paese che hanno sventato il furto delle rendite, sia per il movimento sindacale che ha saputo contrastare con efficacia la campagna referendaria milionaria delle organizzazioni economiche, delle assicurazioni e dei partiti borghesi. «Il successo è stato schiacciante», commenta il copresidente di Unia Andreas Rieger, che ammette una «certa sorpresa» per le dimensioni delle vittoria.

Nessuno si attendeva in effetti che tutti i Cantoni e il 73 per cento dei cittadini rifiutassero la revisione della Legge sulla previdenza professionale che avrebbe comportato il taglio del dieci per cento delle rendite dei futuri pensionati. «Alla vigilia della votazione - conferma Rieger- temevo che nella Svizzera tedesca la campagna del fronte del sì delle ultime settimane (quando sono stati iniettati ancora un paio di milioni di franchi in manifesti e inserzioni) avrebbe prodotto uno spostamento di voti a nostro sfavore, in particolare tra gli elettori più fedeli alla politica di governo».
In che misura il sindacato Unia è stato decisivo al fine di questo chiaro risultato?
Va detto innanzitutto che senza di noi non si sarebbe nemmeno tenuta la votazione. Consapevole sin dall'inizio che le rendite pensionistiche sono una questione vitale per la gente di questo Paese, Unia (unitamente al giornale dei consumatori K-Tipp) ha infatti promosso il referendum ed è stata capace in seguito di convincere anche altre realtà politiche e sindacali a seguire questa strada. Grazie agli sforzi eccezionali del nostro Settore comunicazione, che ha coordinato i lavori, siamo inoltre riusciti a condurre una campagna unitaria e a trasmettere così un chiaro messaggio ai cittadini. Quale principale forza sociale organizzata del Paese, abbiamo dimostrato di saper coinvolgere altri soggetti e vincere una campagna referendaria.
Quali insegnamenti ha tratto Unia da questa campagna?
Unia esce sicuramente rafforzata. In passato avevamo già condotto molte campagne, ma questa è stata caratterizzata da un elemento di novità, ossia dal coinvolgimento in massa dei nostri militanti. Militanti che in tutta la Svizzera hanno partecipato a diverse azioni e distribuito centinaia di migliaia di volantini e di calcolatori del furto delle rendite, suscitando molto interesse e apprezzamento nella popolazione. Insomma, mentre le organizzazioni economiche nella campagna hanno messo i milioni, noi abbiamo sfruttato l'energia e il cuore dei sindacalisti attivi.
Unia ha già in programma nuove campagne referendarie, in particolare contro la revisione della Legge sull'assicurazione contro la disoccupazione (Ladi) e contro l'11esima revisione dell'Avs. In futuro ogni legge di smantellamento sociale sarà combattuta con il referendum?
Gli impegni citati sono già sicuri (anche se nel caso dell'Avs ci sono delle possibilità che il progetto venga fermato già a livello parlamentare), ma un referendum potrebbe imporsi anche contro la revisione della Legge sull'assicurazione contro gli infortuni (che mira a ridurre la copertura assicurativa dei lavoratori e ad indebolire la Suva a vantaggio delle assicurazioni private, ndr). Sicuramente Unia ha davanti a sé una lunga stagione di battaglie referendarie, ma per fortuna non siamo soli.
La disoccupazione, a differenza delle pensioni, tocca una minoranza della popolazione. Ritiene che un referendum contro la revisione della Ladi abbia le stesse chance di successo di quello del 7 marzo?
Di scontato non c'è nulla: ogni volta è necessario lavorare per costruire una maggioranza. È chiaro che le persone toccate dai tagli alle indennità di disoccupazione sono diverse, ma il problema di fondo è lo stesso. Anche la revisione della Ladi nasce nel contesto di una crisi economica causata dall'infinita sete di profitto del mondo finanziario (in cui peraltro si continuano a elargire salari e bonus abusivi ai manager) e rappresenta un tentativo di far pagare la stessa ai disoccupati. Con la revisione della Ladi, si vogliono infatti penalizzare quelle persone che, in gran parte a causa della crisi, hanno perso il posto di lavoro e non riescono a trovarne un altro. E si vanno a colpire i giovani che terminano un apprendistato o gli studi. L'ingiustizia mi pare altrettanto evidente di quella che siamo riusciti a sventare il 7 marzo.
Per molti commentatori il voto di domenica scorsa è soprattutto figlio del clima di sfiducia nei confronti del mondo finanziario e non tanto un atto di difesa delle pensioni. Cosa pensa di questa lettura della decisione popolare?
Il particolare contesto ha sicuramente contribuito a dare risalto ai nostri argomenti e a "inghiottire" quelli molto tecnici portati avanti dal Consiglio federale, ma fondamentalmente la gente, che non è stupida, ha detto no ad un taglio delle rendite degli anziani: i cittadini vivono delle loro pensioni ed hanno potuto calcolare quanto avrebbero perso con la riduzione del tasso di conversione.
Il giorno dopo la vittoria in votazione, i sindacati hanno chiesto un aumento delle rendite di vecchiaia per i lavoratori con i salari bassi. Concretamente, come si intende realizzare questo obiettivo?
Proposte concrete saranno discusse in autunno nell'ambito del congresso dell'Unione sindacale svizzera. Per noi l'obiettivo è chiaro ed è quello di consentire a chi va in pensione di poter mantenere lo standard di vita abituale, come prevede la Costituzione. Si tratta di un bisogno elementare e riteniamo che oggi, per chi guadagna  cinquemila franchi al mese, la garanzia di rendite pensionistiche (Avs più Secondo pilastro) pari al sessanta per cento dell'ultimo stipendio percepito non basti più. Ora si tratta dunque di stabilire quali sono i bisogni reali ed in seguito elaborare i modelli per realizzarli.
Sarebbe sensato aprire un dibattito nel sindacato su una riforma radicale del sistema previdenziale, magari attraverso un rafforzamento dell'Avs, l'assicurazione sociale per eccellenza?
È chiaro che vogliamo rafforzare l'Avs. Ma prima si deve stabilire quali prestazioni e quali diritti sociali vogliamo garantire e in seguito individuare gli strumenti necessari. Certamente si dovrà anche discutere in che misura il primo e il secondo pilastro dovranno contribuire all'obiettivo finale. Tuttavia, a mio avviso, radicali devono essere i contenuti e non gli strumenti. Tra le questioni importanti che andranno discusse cito quella dell'età di pensionamento, che pure rappresenta un problema.
La crisi economica attuale sta dimostrando che i lavoratori anziani, contrariamente a quanto affermano il padronato e i partiti borghesi, vengono infatti espulsi sempre prima dalle aziende. Dunque, il movimento sindacale, pur avendo perso l'iniziativa popolare per un'Avs flessibile, ha il dovere di continuare la ricerca di soluzioni specifiche per un pensionamento anticipato nei vari rami professionali, sull'esempio di quanto avvenuto nell'edilizia. Soluzioni simili servono in molti altri ambiti professionali.


Il popolo difende i suoi interessi

«La crisi di credibilità del sistema bancario e assicurativo svizzero ha sicuramente contribuito alla bocciatura popolare della revisione della Legge sulla previdenza professionale, ma il voto del 7 marzo è anche una conferma di quanto sia difficile, nel nostro Paese più che in altri, riformare il sistema pensionistico». Sandro Cattacin, professore di sociologia all'università di Ginevra non è troppo sorpreso del successo ottenuto dal fronte referendario. Al di là dell'efficacia della campagna sindacale («è riuscita a presentare in modo molto semplice una materia estremamente complessa»), delle argomentazioni poco convincenti delle organizzazioni economiche («hanno alimentato i dubbi sull'efficacia e sulla legittimità della gestione dei capitali da parte del mondo assicurativo) e dello «scarso impegno di molti politici borghesi e dello stesso consigliere federale Didier Burkhalter», il popolo svizzero ha «semplicemente difeso i suoi interessi», afferma Cattacin.
«Una situazione simile -aggiunge - si verificò nel 2004 con la bocciatura della prima versione dell'11esima revisione dell'Avs, ma anche nel 1997 quando fu respinto un decreto che prevedeva una serie di tagli alle prestazioni dell'assicurazione contro la disoccupazione. Il risultato fu determinato dal fatto che in quella fase storica la perdita del lavoro veniva vissuta da ampie fasce di popolazione come un rischio reale per tutti. Ma alle situazioni contingenti, si aggiunge il fatto che in Svizzera lo stato sociale è vissuto attraverso una partecipazione reale e attiva dei cittadini che in esso si identificano. È visto insomma come qualcosa che appartiene alla nostra realtà e alla nostra vita, il che rende particolarmente difficile ogni cambiamento».
Questo non significa però, ammonisce Cattacin, che con la netta bocciatura della revisione della Lpp il discorso sul tasso minimo di conversione sia chiuso: «Entro il 2018, quando il "baby-boom" degli anni Sessanta comincerà ad avere i suoi effetti sulle pensioni, il dibattito sul finanziamento delle rendite dovrà per forza di cose essere riaperto».
Nel frattempo è probabile, annota ancora Cattacin, che il voto di domenica favorisca una «riflessione generale sulle regole, sulla logica della gestione privata delle casse pensioni e sulla trasparenza degli investimenti, che probabilmente porterà a una serie di correzioni sul piano legislativo, ma a nessuno stravolgimento del sistema». Contrariamente a quanto auspicato da alcuni, Cattacin non crede che assisteremo ad una revisione dei parametri di obbligatorietà del secondo pilastro. «Ritengo che vi sarà una stabilizzazione verso l'alto, visto che la Svizzera è un paese con un'alta mobilità professionale e dove è in aumento l'immigrazione di personale altamente qualificato. Se si aumentasse il limite salariale entro cui la cassa pensione è obbligatoria, si creerebbe infatti un impedimento all'assunzione di lavoratori altamente qualificati». «Se questa sarà la tendenza, significa  che nei prossimi anni assisteremo a una diminuzione reale della pensione obbligatoria (visto che c'è sempre un po' di inflazione) e allo sviluppo di nuovi pilastri gestiti dal privato. Il terzo l'abbiamo già, ma probabilmente ne saranno creati un quarto e un quinto con diversi livelli di rischio. La tendenza sarà la stessa in atto per esempio in Giappone, dove vi è un sistema molto simile al nostro e la gente ha dieci o undici pilastri. Il peso della pensione statale è insomma destinato a diminuire in favore di una diffusione, soprattutto tra i lavoratori con salari alti, di un sistema privato differenziato di pilastri aggiuntivi», conclude Cattacin.

Pubblicato il

19.03.2010 01:00
Claudio Carrer
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