Operai intellettuali

Nel corso dell’ultimo secolo si è prodotto un profondo cambiamento nelle pratiche culturali dei ceti meno abbienti e in particolare della classe operaia. L’educazione obbligatoria ha scardinato le regole dell’organizzazione sociale aprendo le porte ai processi di acculturazione, appannaggio, nell’Ottocento, di pochi isolati casi di lavoratori in cerca di emancipazione. A questo proposito Martyn Lyons, dell’Università di «New South Wales di Sidney», ha recentemente pubblicato un saggio sul numero luglio-ottobre 2001 delle «Annales» dal titolo La culture littéraire des travailleurs. Autobiographies ouvrières dans l’Europe du XIX siècle in cui analizza novanta autobiografie redatte da ventidue lavoratori francesi e sessantotto inglesi di cui settantanove maschi e undici femmine. Il campione favorisce la Gran Bretagna dove però, fra il 1790 e il 1900, si pubblicano circa ottocento autobiografie operaie. Pierre Bourdieu scrive in Distinzione. La critica sociale del gusto che la crescita culturale dipende dall’equilibrio esistente nell’individuo fra base economica di partenza e patrimonio d’istruzione, quindi si può dire che gli autodidatti oggetto della ricerca condividono una doppia deprivazione. Le difficoltà economiche delle famiglie generano un percorso scolastico frammentario se non del tutto assente che spesso viene disprezzato, dagli stessi interessati, in favore della scuola di vita. L’avviamento alla lettura avviene in certi casi per mutuo insegnamento, grazie a qualche parente un po’ più istruito. John James Bezer nato nel 1816 non lontano da Londra, afferma che dopo quindici anni di scuola domenicale non ha imparato che nozioni inutili mentre si era dimostrato ben più istruttivo il soggiorno a Newgate (inteso come carcere). La prima sunday school, fondata a Gloucester nel 1780 dal giornalista Robert Raikes, ha lo scopo di insegnare a leggere, scrivere e fare di conto ai figli degli operai, successivamente verrà gestita da società indipendenti dalle chiese identificandosi, nel corso del Novecento con l’insegnamento religioso. L’aspirante letterato è sorretto nel muovere i passi necessari, da una forte spinta soggettiva. Gabriel Gauny di fauburg Saint-Marceau, a Parigi, raccatta giornali usati per l’imballaggio da cui ricavare qualche pagina di lettura. Xavier-Edouard Lejeune invece, dopo aver letto i quotidiani con avidità, seleziona gli articoli, li ritaglia e li incolla, in un periodo che va dal 1860 al 1918, riempiendo così una quantità di quaderni. Sébastien Commissaire, soldato a Metz nel 1846, insieme a altri commilitoni «affitta», presso il libraio del quartiere, i giornali di sinistra del giorno prima. I libri si prendono a prestito da amici, insegnanti, ecclesiastici; anche se, negli anni 1830 si nota un ribasso del prezzo dei romanzi. Margaret Penn cresce nel Lancashire in una famiglia protestante non conformista. Legge la Bibbia e i libri ricevuti in prestito alla scuola domenicale: Robinson Crusoe, Tess d’Urberville, East Lynne. I genitori la costringono a compitare ad alta voce per controllare la qualità morale dei romanzi. Lei si secca moltissimo perché in questo modo non fa a tempo a leggere un libro la settimana per restituirlo la domenica. Quando se ne andrà di casa i genitori attribuiranno la responsabilità alla lettura. Qualche analfabeta chiede a altri di leggere per lui, come nel caso di Norbert Truquin, figlio di un metallurgico del nord della Francia. Cardatore di lana dall’età di sette anni, ascolta i compagni di lavoro che leggono ad alta voce brani del Viaggio in Icaria di Etienne Cabet, rivoluzionario ideatore di una società comunista sperimentata poi in una colonia negli Stati Uniti. Truquin diventa un libero pensatore anticlericale ma non sa ancora leggere. Nel 1855 in una miserabile seteria di Lione, un operaio gli legge il Courrier de Lyon. In carcere per aver partecipato alla Comune di Lione, ascolta l’Histoire de la conquête du Mexique di Hérnan Cortés. A trentasette anni parte per l’Argentina per fondare una colonia socialista, di lì passa in Paraguay, impara finalmente a leggere e scrivere e a cinquantacinque pubblica la sua autobiografia Mémoires et aventures d’un prolétaire. Gli autodidatti sono per necessità eclettici e eretici, solo in un secondo tempo possono organizzare meglio la loro ricerca, darsi delle regole e un programma di lavoro. Sono ambivalenti nei confronti della borghesia da cui dipendono e a cui si debbono appoggiare per raggiungere la cultura, l’autonomia e la coscienza di sé. Alleati dei riformatori borghesi delle biblioteche si battono contro la banalità e il sensazionalismo, considerati un veleno insidioso e distruttivo per il senso morale delle famiglie operaie. Henri Tolain, metallurgico e prudhoniano, detesta il Werther egoista e lacrimoso ma riconosce i meriti di Balzac anticipando di cento anni la considerazione che Marc Bloc riserverà al senso acuto di realtà, nella descrizione della vita quotidiana dei lavoratori, dell’autore della Commedia umana. Ma su tutti, Tolain, sceglie Notre-Dame de Paris di Hugo, di gran lunga il più vicino ai suoi ideali. La comunarda Victorine Brocher considera il romanzo vano e frivolo ma ha riguardo per I miserabili che definisce opera di filosofia sociale e specchio delle condizioni di diseguaglianza. Il venditore ambulante James Burn colloca la letteratura al quinto posto dopo religione, storia, arte e scienze. Fanno eccezione Il vicario di Wakefield di Goldsmith e Robinson Crusoe di Defoe e Dickens sopra ogni altro per le sue idee radicali e la profonda simpatia che lo lega agli esclusi. Gli autodidatti creano una sorta di «comunità interpretativa» che raccoglie una rete di lettori legati dalle stesse motivazioni, percorsi, convinzioni e definisce la «buona letteratura». Gli inglesi scelgono Bunyan, Milton, Paine e poi Ruskin e Carlyle mentre i francesi selezionano Rousseau, Chateaubriand e Voltaire. Quando l’autodidatta prova a scrivere viene accolto con sufficienza e qui Lyon torna a citare Bourdieu: «Fondamentalmente l’autodidatta si definiva per la sua reverenza nei confronti della cultura, effetto di una esclusione brutale e precoce che portava a una devozione esaltata e mal orientata, destinata a essere percepita dai detentori della cultura come una sorta di omaggio caricaturale». In Gran Bretagna, nasce per prima l’autobiografia spirituale, alla moda de Il viaggio del pellegrino di Bunyan, secondo un paradigma convenzionale: giovinezza depravata, prostrazione e sofferenza, crisi spirituale e conversione. Successivamente scienza e positivismo modificano il percorso del cambiamento e Dio e l’anima vengono sostituiti dal potere della ragione. L’autobiografia storica invece è rafforzata dalla convinzione molto condivisa che la storia ufficiale è scritta dalla parte di chi comanda e non rappresenta in alcun modo i lavoratori. Gli operai scrivono la loro storia per controbilanciare quella ufficiale e nel farlo spesso scrivono una sorta di storia alternativa del secolo dove compaiono anche i rivoluzionari europei, da Herzen a Mazzini, che gli autori incontrano o di cui raccontano aneddoti. C’è infine la forma autobiografica strettamente legata al processo di crescita personale, coronato dal raggiungimento del successo, del riscatto sociale e questo è un tratto caratteristico delle autobiografie di autori di genere maschile. Le donne operaie scrivono prevalentemente memorie in quanto militanti in cerca di emancipazione. La storia di Victorine Brocher, pubblicata da Maspéro, racconta nel dettaglio l’esperienza della Comune, giorno dopo giorno: il prezzo del pane, i salari operai, le cene a base di paté di topo, le malattie, i massacri, la propria condanna a morte. Gli autori sono consapevoli delle difficoltà e dei tranelli della lingua scritta e alcuni dichiarano apertamente la difficoltà e si scusano con un po’ di affettazione. Taylor, fabbro del Sunderland preferisce l’ironia: «Maneggio meglio il martello della penna e dubito delle mie capacità di far scaturire delle scintille dall’incudine della mia vita». C’è molta modestia nel presentarsi, vera o falsa che sia serve a proteggerli nell’esporsi al pubblico. Lo stile è un problema non indifferente. Bédé, che aveva organizzato nel 1820 uno sciopero di fabbricanti di sedie nella città di Parigi, sceglie la forma del melodramma ambientando la sua autobiografia nel diciottesimo secolo. Ellen Johnston operaia e figlia di un tagliatore di pietra costruisce la sua identità femminile con i romanzi di Walter Scott il che le causerà non poche disillusioni nella durissima materialità della vita. La lotta contro l’ignoranza è il denominatore comune dell’incontro ottocentesco fra letteratura e lavoro. La consapevolezza che l’analfabetismo è la ragione prima della subalternità agisce come leva potente su questo drappello di intellettuali operai che vivono una condizione speciale e che spesso, inconsapevolmente si sono autoincaricati di produrre una modificazione irreversibile, di portata straordinaria. L’impegno solitario dello studio li isola dall’insieme dei compagni di lavoro. Il progressivo abbandono del dialetto, la proprietà di linguaggio li rendono diversi, vengono considerati superbi e antipatici, tuttavia anche quelli che riusciranno a emergere dalla massa operaia difficilmente rinnegheranno le loro origini sociali. Gilland, di fauburg Saint-Antoine ne dà conferma: «Amo il mio stato e i miei attrezzi e quand’anche avessi potuto vivere della mia scrittura, mai avrei voluto abbandonare il mio lavoro di fabbro ferraio».

Pubblicato il

05.07.2002 02:00
Eliana Bouchard
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