Cooperazione internazionale


Le politiche neoliberiste sono applicate sistematicamente anche alle Organizzazioni non governative (Ong) attive nella cooperazione internazionale. Un bene? Un male? Diciamo che si tratta di un tipo di politica economica promossa dall’Occidente – in primis la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale – utilizzato da decenni come un mantra nei paesi beneficiari di aiuti e finanziamenti per lo sviluppo. Per questo motivo il modello, come denunciano alcuni ricercatori internazionali, non potrà mai, se la modalità resta questa, permettere alle Ong locali, che conoscono i bisogni dei loro paesi, di autodeterminarsi... Detto in altre parole, l’azione di egemonia neoliberista adottata come un Vangelo limita e condiziona, invece di favorire, la riuscita delle politiche di sviluppo.

 

Thomas Sankara, il primo presidente del Burkina Faso, aveva le idee in chiaro quando si parlava di politiche di cooperazione internazionale allo sviluppo: per colui che fu il leader di tutta l'Africa occidentale sub-sahariana si trattava di uno specchietto per le allodole, un bluff dei governi forti per continuare a esercitare il controllo e il dominio totale sull’orbe terrestre. Insomma, se non si può più imporre il colonialismo nella sua forma originaria, si continui pure a farlo ma con strumenti più raffinati che trovino il consenso generale. Con il suo storico discorso all’Assemblea generale dell’Onu, Sankara il 4 ottobre 1984 denunciava al mondo, che forse se ne infischiava bellamente, le incongruenze del sistema internazionale delle politiche di cooperazione allo sviluppo. Il “Che Guevara africano”, come era soprannominato, sapeva di che cosa parlava e constatava quanto «per l’imperialismo è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità». Sì, decolonizzare, perché per Sankara un certo modo di fare cooperazione internazionale, con la regia da Washington che imponeva visione e strumenti occidentali, rischiava di trasformarsi in un perverso strumento di colonizzazione culturale.


Ciò che è certo è che le politiche neoliberiste, attraverso appunto anche all’influenza della Banca mondiale, sono considerate lo strumento per eccellenza al fine di risolvere la povertà nel mondo: tali procedure vengono imposte anche alle Ong locali nel momento in cui chiedono i finanziamenti per i loro progetti. C’è chi ovviamente è d’accordo con il metodo e lo considera il più efficace, e ci sono coloro che al contrario sono scettici, se non addirittura radicalmente critici. Le denunce di autorevoli accademici si sono alzate forti in questi anni in tutto il mondo: le Ong da attori attivi rischiano di diventare, loro malgrado, l’anello di un nuovo tipo di dipendenza e di colonialismo economico e culturale. È una questione di rapporti di forza tra il “primo” e il “terzo” mondo: i progetti di sviluppo sono approvati sulla base delle linee guida del management neoliberista. Le valutazioni vengono fatte secondo questi criteri: la conformità degli obiettivi e dei valori deve rispondere all'ideologia dei donatori, così come l’uso dei fondi. Ed è facile intuire i limiti e i rischi del sistema di managerializzazione di sviluppo secondo una visione unilaterale.


Emanuela Girei, dell’Università di Cagliari, una laurea in psicologia e un dottorato in politiche dello sviluppo,ha pubblicato su due importanti riviste della comunità accademica internazionale il suo lavoro empirico in una Ong ugandese. Girei, studi anche all’Università di Manchester e professoressa a contratto alla Franklin University Switzerland, ha riportato le conclusioni del suo studio su Organization studies e Human relations, due riviste di riferimento per la comunità accademica internazionale, dove si può scrivere solo se viene riconosciuto il rigore delle metodologia scientifica e la qualità scientifica del proprio lavoro. Pure l’analisi di Girei giunge alle conclusioni che l’applicazione sistematica del management occidentale priva le Ong locali del loro diritto di autodeterminazione. Negli scritti si sottolinea uno «sviluppo asimmetrico nei rapporti di potere tra l’Occidente e il resto del mondo. Le prescrizioni di politica neoliberale omogeneizzata, tecnocratica e la gestione standardizzata appaiono come la naturale soluzione ai problemi della povertà del mondo».
Una prospettiva occidentale dal punto di vista intellettuale, economico e politico che viene assurto a modello universale e ha guidato gli interventi nei paesi in via di sviluppo. In questo senso si potrebbe sostenere – sottolinea la studiosa – che l’adozione del pensiero manageriale nell’ambito delle pratiche di cooperazione serve a sostenere i miti del progresso occidentale e spiega il ritardo del terzo mondo.


Si deve ricordare che le Ong hanno generalmente un atteggiamento critico verso la dottrina neoliberista che ha dominato la politica di sviluppo in questi ultimi trent’anni. È di vitale importanza l’emancipazione delle Ong dai poteri forti che impongono modelli di gestione standard perché «le sfide e le speranze non possono rientrare in un ragionamento meccanico».


L’egemonia neoliberista limita le Ong che, al contrario, sono parte attiva e aprono la strada a nuove possibilità di cambiamento radicale: l’efficacia della loro azione sarà tale quando avranno la possibilità di autodeterminarsi.

Pubblicato il 

19.11.15
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