Stephan Schmidheiny era perfettamente a conoscenza dei rischi dell’amianto e dunque sapeva che i lavoratori, respirando le polveri, avrebbero corso il rischio di ammalarsi e di morire. Partendo da questa constatazione, peraltro supportata da un ingente materiale probatorio, la Procura di Torino nelle scorse settimane ha presentato appello alla Corte di cassazione contro la decisione del 29 novembre 2016 del giudice dell’udienza preliminare (Gup) Federica Bompieri, che nell’ambito del processo Eternit bis aveva derubricato l’accusa da omicidio volontario a omicidio colposo, provocando così (per una questione di competenza territoriale) il frazionamento del procedimento in quattro tronconi, a dipendenza del luogo di residenza delle 258 vittime in oggetto. Una decisione inaccettabile per i magistrati torinesi che da 15 anni indagano sulla vicenda: il miliardario svizzero (che controllava le filiali italiane della Eternit tra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta) va dunque processato nel capoluogo piemontese e per il reato di omicidio, nella forma del cosiddetto “dolo eventuale”, che è dato quando qualcuno prevede le conseguenze (in questo caso la morte) del proprio agire ma non fa nulla per prevenirle. Il capo della procura generale Francesco Saluzzo, che, insieme con il sostituto procuratore titolare dell’inchiesta Gianfranco Colace, ha firmato il ricorso, spiega come il vertice della Eternit fosse «consapevole di cosa stesse succedendo nei suoi stabilimenti» e non solo «per lunghissimi anni non ha informato gli operai, la cittadinanza e gli organi di vigilanza dei rischi per l’amianto, ma ha posto in essere un’opera di disinformazione». Stephan Schmidheiny avrebbe infatti tentato di nascondere le notizie relative agli effetti devastanti dell’amianto, nonostante da anni la letteratura scientifica e non solo avesse dimostrato la correlazione tra la fibra e le malattie del sistema respiratorio, tra cui il tumore. Come emerso anche dal dibattimento del primo processo (che aveva portato a una condanna a 18 anni di carcere per Stephan Schmidheiny, in seguito annullata dalla Cassazione per intervenuta prescrizione), le conoscenze sulla nocività dell’amianto erano note fin dall’inizio del secolo scorso. La proprietà della fabbrica dunque non poteva non sapere ma nonostante ciò, nel nome del profitto, decise di far lavorare ugualmente l’amianto negli stabilimenti, senza protezioni, senza filtri e senza misure di prevenzione. «Leggendo tutti gli atti del procedimento mi sono convinto della fondatezza dell’accusa di omicidio volontario con dolo eventuale», sottolinea il procuratore generale Saluzzo motivando il ricorso alla Corte di cassazione, la quale dovrebbe pronunciarsi nel giro di qualche mese. Se dovesse rigettare il ricorso, il procedimento seguirebbe la via indicata dal Gup Federica Bompieri lo scorso novembre: quattro processi distinti a dipendenza del luogo di residenza delle vittime. Il Tribunale di Torino si limiterebbe a giudicare due soli casi, mentre gli altri verrebbero trasmessi alle Procure di Napoli (per le vittime dello stabilimento di Bagnoli), a Reggio Emilia (per quelle di Rubiera) e i restanti a Vercelli, che è competente per le vittime della regione di Casale Monferrato, dove aveva sede lo stabilimento più grande e dove si registra il numero più alto di morti. Se per contro la Cassazione facesse sue le argomentazioni della Procura, il processo tornerebbe a Torino davanti a un nuovo Gup che dovrebbe nuovamente pronunciarsi sulla richiesta di rinvio a giudizio. In tutti i casi si preannunciano dunque tempi lunghi, che l’Associazione familiari e vittime dell’amianto (Afeva) intende comunque sfruttare per «studiare insieme ai propri legali nuove modalità di tutela delle vittime e dei familiari, che consentano di fornire una tutela effettiva in tempi ragionevoli», come si legge in un comunicato della stessa Afeva in cui si esprime piena approvazione per l’iniziativa della Procura di Torino, che apre «una nuova pagina della battaglia giudiziaria».
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