La grave crisi economica e politica che ha colpito l’Argentina non sembra per ora aver minato il desiderio dei giovani registi di realizzare dei film sulla situazione attuale del loro paese. All’inizio degli anni Novanta sono nate diverse scuole di cinema, pubbliche e private, frequentate a tutt’oggi da quasi diecimila studenti. La produzione di queste scuole è impressionante. La più prestigiosa di esse, la Fuc (Fondazione Università del Cinema), da cui sono usciti quei giovani cineasti oggi diventati i portabandiera del cinema argentino nel mondo (come Pablo Trapero, Israel Adrián Caetano e Lucrecia Martel), sforna annualmente 125 video e 60 film, di cui 5 in 35mm (1). E non riceve nessun aiuto dallo Stato. Mentre l’Incaa (Instituto Nacional de Cine y Artes Visuales) subisce pesantemente le ripercussioni della crisi e non ha nessuna speranza di ottenere quell’autonomia finanziaria che reclama da molti anni, è da queste scuole e dall’irrefrenabile voglia dei giovani di filmare il loro paese che nasce l’incredibile vitalità della cinematografia argentina. È vero, il cinema argentino è di moda: all’attrazione provocata dal fascino antico del paese (terra sognata e conquistata da emigranti di tutto il mondo) e dalla sensualità malinconica del tango, si è ora aggiunta la curiosità dello spettatore di saperne di più su una nazione allo sfacelo. Ed è anche vero che questa moda comincia a far sentire i suoi effetti meno simpatici, come ad esempio il progressivo avvicinarsi di alcuni registi, che avevano debuttato con film poveri ma forti, al gusto occidentale, ad uno stile normalizzato di stampo internazionale. Resta però il fatto che i festival più importanti al mondo e gli innumerevoli incontri dedicati al cinema latinoamericano o argentino in particolare sono in grado di rivelare ogni anno almeno un film argentino di assoluto valore. È stato il caso quest’estate anche per il Festival di Locarno, che ha visto giustamente pluripremiato il lungometraggio d’esordio di Diego Lerman, “Tan de repente”. Un apporto fondamentale alla vitalità del nuovo cinema argentino è dato inoltre dalla coraggiosa produttrice Lita Stantic, dalla cui tenace lotta contro la mancanza di denaro e l’indifferenza delle autorità arrivano ben cinque dei film della retrospettiva di Castellinaria. Dei nove film che si potranno vedere all’Espocentro, tre sono in prima svizzera assoluta. Il primo è “El hijo de la novia” di Juan José Campanella, una commedia popolare di successo firmata da un regista dalla lunga esperienza televisiva. Il secondo, “Un oso rojo” di Israel Adrián Caetano (che sarà proiettato martedì sera alle 20.30), è un western metropolitano incentrato su un padre di famiglia che esce di galera e, pur di aiutare la moglie che l’ha lasciato e convive con un disoccupato, ma soprattutto la figlia che riesce a vedere solo a stento, accetta di partecipare ad una rapina a mano armata e finirà per commettere una carneficina. Pur essendo presenti tutti i temi sociali cari al regista (autore di “Pizza, birra y faso”, del 1998, e di “Bolivia”, di cui parleremo più avanti), il film concede un po’ troppo ad uno stile standardizzato, forse con l’illusione di sfondare nei mercati esteri. Il più interessante dei tre è senz’altro “Un día de suerte”, opera prima di Sandra Gugliotta, girato con pochi mezzi ma che più di altri riesce a focalizzare la drammatica realtà del paese: la giovane protagonista, infatti, nipote di un anarchico italiano immigrato in Argentina, ha un solo desiderio, quello di percorrere a ritroso il viaggio di suo nonno, anche se l’Italia non sarà in grado di soddisfare le sue aspettative. Altri film hanno fatto solo fugaci apparizioni in Festival o rassegne speciali. È il caso del già citato “Bolivia”, ben più rigoroso di “Un oso rojo” nel descrivere in un antispettacolare bianco e nero e in uno stile prossimo a quello del documentario la triste odissea di molti emigranti che lasciano l’altipiano andino ancora attratti dal miraggio di Buenos Aires, una città che invece può offrir loro soltanto un lavoro illegale e precario nelle cucine dei ristoranti. “Tan de repente” di Diego Lerman è un film fresco, originale, all’inizio strampalato ma poi carico di sommessa tenerezza. Nella vicenda delle due ragazze lesbiche e punk che costringono una venditrice goffa e inibita a seguirle in un loro periplo verso il mare e poi verso la casa della zia di una delle due, c’è tutto il disperato disincanto di una gioventù argentina allo sbando, eppur bisognosa di ritrovare almeno qualche scampolo di rapporto umano. Con “Las aventuras de Dios”, il maturo e affermato Eliseo Subiela continua a ricordarci, in sintonia con una consolidata vocazione tipicamente latinoamericana, quanto siano labili i confini tra il sogno e la realtà, conducendoci per mano in un allucinato viaggio interiore. Della produzione recente più conosciuta, la retrospettiva di Castellinaria ha selezionato tre opere di fondamentale importanza, tre riferimenti imprescindibili per tutto il nuovo cinema argentino. “Garage Olimpo” di Marco Bechis è uno dei pochi film della fine degli anni Novanta che ha osato riaprire la ferita profonda lasciata dalla dittatura militare e riproporre il discorso sui “desaparecidos”. “Mundo grua”, primo film di Pablo Trapero (che ha presentato quest’anno a Cannes il suo secondo lungometraggio, “El Bonaerense”), è uno dei capostipiti di quel filone di cinema “povero” cui si possono ricondurre anche “Un día de suerte”, “Bolivia” e “Tan de repente”: un cinema povero di mezzi ma ricco di idee e di umanità, attento in questo caso a rappresentare la precarietà del lavoro che finisce per segnare in maniera profonda anche la vita affettiva delle persone. Ma l’esordio più straordinario degli ultimi anni è forse stato quello della giovane Lucrecia Martel, che con “La ciénaga” (film sostenuto anche dalla Fondazione Montecinemaverità) ci ha consegnato l’allegoria più potente e matura dello sbando della borghesia argentina. Il film (premiato come miglior opera prima l’anno scorso a Berlino e vincitore ex-aequo del Festival dell’Avana) mette in scena l’ozio endemico e le inutili esistenze appiattite tra l’alcol e la noia di due famiglie nella cadente proprietà di una provincia paludosa, nell’afa soffocante di un’estate che incombe carica di lontane minacce. Due incidenti suggellano l’inizio e la fine di una storia che non riesce mai a svilupparsi; e la sensazione di straziante immobilità che emana dal film impregna durevolmente la mente dello spettatore che avrà saputo resistere fino alla fine.

Pubblicato il 

15.11.02

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