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O pais tropical
di
Andrea Salati
Françoise mi ha comunicato che Internet ha restituito il mio precedente scritto del tutto indecifrabile. Ci riprovo ora. Quell’articolo si occupava di Buenos Aires, della traversata del Rio de la Plata là dove i fiumi Paranà e Uruguay vi si gettano con un dedalo di canali che disegnano le isole del delta. Poi di Montevideo, la bella capitale dell’Uruguay, e del viaggio verso nord, attraverso le estese pianure uruguayane occupate da ranch immensi dove si pratica l’allevamento estensivo dei bovini (pare senza rischio di vacca pazza, che sta facendo tremare tutti anche qui). In seguito abbiamo riattraversato il fiume Uruguay tra Salto e Concordia, per tornare in Argentina dove volevamo visitare i resti delle missioni che i Gesuiti vi impiantarono nel XVII e XVIII secolo per sedentarizzare e convertire gli indigeni Guaranì, ma anche per difenderli dagli attacchi dei Garimpeiros, bande di avventurieri portoghesi che percorrevano le foreste per catturare schiavi da rivendere sulle coste brasiliane. Una trentina di missioni in ognuna delle quali vivevano tra 2000 e 4500 indiani, fondate dapprima in Brasile, poi trasportate in territorio argentino, nella provincia che oggi si chiama appunto Missiones, per meglio potersi difendere. Oggi le si trovano, alcune meglio restaurate come S. Ignacio Minì, altre più trascurate, nella foresta. I loro muri e selciati, le sculture di pietra e i sassi dispersi, tutti rossi (arenaria per statue e muri, basalto per i selciati) creano uno spettacolo molto suggestivo mescolandosi alla natura prorompente, formando con rami e radici di alberi imponenti e giganteschi filodendri sculture fantastiche. Tutte queste missioni erano costruite secondo lo stesso disegno. Al centro vi era la piazza d’armi, molto grande, dove gli indiani erano istruiti all’arte della guerra dai preti gesuiti, che erano persino riusciti ad ottenere dal re di Spagna il diritto di armarli con armi da fuoco. Su un lato di essa la chiesa, ornata da statue e fregi eseguiti dagli indiani con grande abilità, secondo lo stile detto barocco guaranì. Ai lati della chiesa la casa dove stavano i preti, il chiostro, la scuola, la casa per gli orfani e quella per le vedove e il cimitero, dietro l’orto. Sugli altri tre lati della piazza la prima fila delle case d’abitazione, lunghi edifici con i lati maggiori percorsi da un porticato che permetteva di ripararsi dal sole cocente, e dietro le altre. Ogni famiglia aveva diritto ad una parte composta da due stanze. Certo i Gesuiti non lasciavano oziare gli indiani, ai quali insegnarono molti mestieri europei, né permettevano loro di seguire la loro religione; d’altra parte nelle missioni si parlava guaranì e non spagnolo e gli indigeni potevano vestirsi secondo la loro tradizione. Le missioni divennero molto ricche grazie alla coltivazione della Yerba, un arbusto le cui foglie, dopo essere state trattate come quelle del the, permettono la preparazione del mate, la bevanda di cui Argentini e Uruguayani non possono ancor oggi fare a meno. Questa ricchezza finì per svegliare la cupidigia dei ricchi spagnoli di Buenos Aires, che tanto fecero e tanto dissero da convincere il re di Spagna a scacciare e vietare i Gesuiti, per sostituirli con i più "diligenti" domenicani e francescani. Questi in breve proibirono l’uso della lingua guaranì, obbligarono gli indiani a vestirsi alla spagnola, costringendoli a scappare e tornare nella foresta, ma con molte conoscenze tecniche e artigianali in più. Anche i gesuiti si vendicarono, portando con loro il segreto della germinazione dei semi della Yerba, impedendo ai "cugini" francescani e domenicani, e quindi ai ricchi spagnoli di Buenos Aires, di approfittare delle piantagioni, che andarono in malora per un secolo. Dalla provincia di Missiones si passa in Brasile alle cascate di Iguazù, grandi acque in lingua guaranì. La maggior parte delle cateratte si vedono dal lato Argentino, fuori Puerto Iguazù, cittadina di frontiera il cui maggior introito, provocato dal turismo, sta riducendosi velocemente a causa dei prezzi praticati in Argentina, dove la parità forzata del peso con il dollaro ci rende quel paese caro come la Svizzera, o quasi. Non proverò nemmeno a descrivere lo spettacolo imponente offerto dalle innumerevoli cascate di tutte le dimensioni, roba da pelle d’oca visto anche che le recenti piogge le avevano ingrassate alzando il livello del fiume di ben 18 metri. Nella Gola del Diavolo, la parte più impressionante, ci siamo potuti andare solo su di una lancia equipaggiata da un motore potente, finendo fradici come se fossimo caduti in acqua. Tutto ciò in una splendida foresta dove è facile incontrare tucani dal grosso becco giallo, coati e piccole scimmie, e non impossibile scontrarsi con un giaguaro, penso, visto che ti istruiscono su cosa fare in tal caso. Il grande ponte Tancredo Neves, nome di uno sfortunato presidente del Brasile eletto ma morto prima di entrare in carica, ospita la frontiera con il Brasile. La città Brasiliana si chiama Foz de Iguaçu. Da questa parte le cascate si possono vedere solo dall’alto, ma in paga ti accorgi subito che i prezzi delle cose sono molto più abbordabili, e ti rinasce la speranza di non dover tornare a case presto. Un omnibus, come in Brasile si chiamano gli autobus che in breve tempo vanno ovunque tu voglia andare, ci ha portati a Curitiba, la capitale dello stato di Paranà, uno dei più ricchi e organizzati del Brasile. La cittadina, anche se non ha niente di straordinario, è piacevole. Situata a 900 metri d’altitudine è abbastanza fresca, soprattutto di notte, permettendoci di dormire bene. Da lì un treno costruito alla fine dell’800 da belgi, svizzeri e italiani, attraversa una catena montuosa interamente occupata dalla "mata atlantica", la foresta originaria delle coste del Brasile, ora quasi ovunque scomparsa, per raggiungere Paranaguà, il porto da cui parte la soja diretta in tutto il mondo. Il trenino ricorda la Centovallina, salvo che viaggia ancor più adagio, scricchiola ancora di più e che le valli e la foresta disabitata che lo circondano sono più grandi del Ticino. Quella delle dimensioni è l’impressione più forte che lasciano in noi questi paesi. Il Brasile da sud a nord fa qualcosa come 6500 chilometri, ed è più largo che alto! L’altro giorno dalla foresta di Tijuca, a Rio de Janeiro, proprio sotto la cima del Corcovado, vedevamo la splendida città estendersi tra baie e colline. Fare il giro del centro "allargato", compreso il nuovo quartiere residenziale di Barra, stile Florida, sono un centinaio di chilometri. Andare al mercato di Niteroy per comperare il pesce, in faccia a Rio dall’altra parte della baia di Guanabarà, sono 20 chilometri che la gente percorre più facilmente di quanto faccia un abitante di Viganello per recarsi in centro a Lugano. Su Rio non mi dilungherò poiché Cristina e io non abbiamo fatto nient’altro che quello che ogni turista fa, a parte l’aver preparato quasi duecento agnolotti secondo la ricetta della mia nonna piemontese. Ciò è successo a casa dell’amico mesolcinese Rolando Schramm e della sua famiglia con invitati d’onore due gastronomi brasiliani, di cui uno, Eduardo, pensionato della Fondazione Oswaldo, ha anche seguito un corso di cucina tenuto da uno chef di Beaucuse. Mi ricorda, Eduardo, un Brasiliano di ampia cultura che in non so quale dei suoi libri (forse Bourlinguer?) Cendrars raccontava di aver incontrato in Amazzonia. Ha detto di non aver mai mangiato qualcosa di così sabroso, solleticando il mio orgoglio. I ravioli sono stati preceduti da un’insalatina capricciosa accompagnata da una magnum di champagne brasiliano Chandon Brut, buono, innaffiati da un paio di bottiglie di uno stupendo merlot cileno e seguiti da un Tokay Aszu ungherese di 4 puttonys, che accompagnava una panna cotta che mi era riuscita piuttosto bene.Invece vorrei aggiungere due parole sull’isola del miele, l’Ilha do Mel, che si raggiunge in poco più di un’ora di battello da Paranaguà. È uno dei luoghi turistici più noti e belli del sud del Brasile, dove non esistono strade, auto e motorette. Stretta e lunga in direzione sud-nord, presenta molte spiagge incantevoli da scoprire passeggiando. Ne parlo perché al centro ha una strozzatura tale che le spiagge dalle due parti si uniscono, diventando una sola spiaggia bifronte. Era la prima volta che mi capitava di trovarmi in un posto da dove si può vedere il sole sorgere dal mare e tramontare sempre nel mare dall’altra parte. Ieri abbiamo lasciato Rio e dopo sole cinque ore di omnibus ora siamo a Tirandentes, storica città mineraria nello stato di Minas Gerais, ma di questo, se vorrete, parleremo la prossima volta.
Pubblicato il
27.04.01
Edizione cartacea
Anno IV numero 14
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