La rivoluzione industriale in corso – robotizzazione abbinata a intelligenza artificiale (denominata web 4.0) – impatterà sui vari sistemi socio-economici, con contrazione dei posti di lavoro e pressione sui salari. Il lavoro umano non sparirà, ma diversamente da quanto avvenne in passato, il bilancio sarà negativo. Insomma ci sarà lavoro, ma non basterà per tutti, mentre l’impianto del welfare s’imballerà. All’orizzonte si staglia una nuova “questione sociale” che se non affrontata sbatterà nella precarietà una parte cospicua della popolazione incidendo negativamente sul funzionamento della società. I governanti odierni non dimostrano di avere consapevolezza della gravità della situazione, e si ostinano a proporre misure di carattere tecnico-contabile per far “tornare i conti” (riduzione prestazioni, aumento dei premi assicurativi), ed esigere riforme per allentare i vincoli di legge sul lavoro; il tutto senza controparte per i lavoratori. Ambienti economici e partiti loro vicini insistono che la soluzione risiede nella responsabilità individuale, il libero mercato e la concorrenza, conditi se necessario con la carità. Un ritornello già in voga duecento anni or sono. Sindacati e partiti di sinistra rivendicano lavoro per tutti, facendo pressione per una legislazione che protegga il lavoratore. Rivendicazione certamente comprensibile, ma che appare poco adeguata al contesto odierno per almeno due questioni: la produzione di ricchezza e il lavoro. La produzione di ricchezza mediante beni materiali e servizi (che genera il valore aggiunto aziendale la cui somma è il Pil nazionale) destinati al mercato e acquistati da chi è solvibile (rendita, salario o prestito), è sempre più realizzata tramite robot e sistemi intelligenti, mentre la parte dei guadagni di produttività rimane per oltre il 90 per cento agli azionisti. Simile squilibrio è moralmente ingiustificabile. La distribuzione della ricchezza, tematica caduta nel dimenticatoio, ma che nel passato (da Ricardo e Marx nell’800 fino a Keynes nella metà del ’900) fu al centro di accesi dibattiti, ritorna in auge e va ripensata. Durante “i magnifici 30 anni”, come li definì lo storico E. Hobsbawm, ci fu un aumento significativo a favore del lavoro, dando l’illusione che il capitalismo fosse il sistema perfetto, ma fu una breve parentesi. La definizione di lavoro esclude le attività di volontariato o svolte dal singolo per bisogni non commerciali (lavori domestici, fai da te ecc.); essa va allargata a “qualsiasi attività volta a un fine determinato”, dove tra i fini vanno intesi qualità di vita, coesione, cittadinanza, bene comune, benessere individuale, collettivo, ambientale…; oltre che tutte quelle attività fondamentali svolte dal volontariato, ma non riconosciute quale valore economico, senza le quali il sistema attuale crollerebbe. Nell’800 le classi dominanti, sorrette da economisti conservatori, si opposero ai riconoscere ai lavoratori il diritto al welfare, tacciandolo di utopia. Oggidì la maggioranza dei dirigenti politici, sorretti da economisti difensori dei principi neoliberisti, si ostinano a far credere che libera concorrenza e libero scambio, smantellamento di tutte le barriere, rilanceranno la crescita, mentre il mercato risolverà i problemi, compresi quelli dell’impiego; negando la necessità di cercare altre soluzioni, o entrare nel merito di proposte che tocchino la ridistribuzione della ricchezza. Sul fronte della sinistra e dei sindacati che dovrebbero promuovere i diritti di tutti i “proletari” vi sono titubanza, poca chiarezza e parecchie divergenze, per esempio sulla definizione di lavoro e sulla distribuzione della ricchezza, tra cui il reddito di cittadinanza. Un’impasse che impedisce di concepire una strategia che possa contrastare efficacemente quella dominante.
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