Dietro lo specchio

Pandemia prima, guerra in Ucraina poi, hanno messo fine a quella globalizzazione e al mondo unipolare, sorti all’indomani della caduta del muro di Berlino nel 1989. Esse stanno accelerando una nuova globalizzazione, come titola un articolo dell’Economist del 16 giugno. Scopo: ripianificare l’organizzazione per ridurre dipendenza, e aumentare la sicurezza d’approvvigionamento, se non sospendere le attività con i paesi autocratici; in particolare Cina (produzione di beni e servizi), Russia (approvvigionamento di materie e risorse energetiche e alimentari).

 

Pandemia, dipendenza da paesi autocratici, emergenza climatica, arrivo di nuovi virus hanno contribuito a far prendere coscienza ai consigli d’amministrazione delle imprese, e ai Governi, delle fragilità di una globalizzazione costruita sostanzialmente attorno al solo criterio di efficienza (investendo indistintamente nei paesi che garantivano redditività). Sicurezza di approvvigionamento e resilienza sono i nuovi principi. Tradotto: fare affari con attori su cui si può fare affidamento il cui governo è “amico”, ridurre le catene del valore, diversificare i partner, realizzare a livello aziendale l’integrazione verticale con controllo diretto sui punti critici (vedi la Tesla di Musk: controllo dalla miniera di nichel al design dei chip). Il processo è già avviato. Ma dove ci porterà? A ben guardare esso assegna priorità agli aspetti economici e geopolitici, come in precedenza sorvola le implicazioni sociali.


Indubbiamente la globalizzazione anteriore aveva generato taluni vantaggi: bassi prezzi per i consumatori, fatto uscire dall’estrema povertà popolazioni di molti paesi del sud, spinto la loro industrializzazione (fra cui la Cina, diventata la seconda economia mondiale). Poca attenzione invece sul lento e costante degrado che in meno di 30 anni ha comportato smantellamento e delocalizzazione di attività, ovvero la distruzione di migliaia di job con le perniciose conseguenze: disoccupazione, diminuzione di reali opportunità lavorative soprattutto di quelle qualificanti (che consentono di aggiornare/acquisire nuove  competenze). Una lenta, ma continua erosione di lavoro, qualifiche e reddito. Insomma qualsiasi globalizzazione è per sua natura nemica della stabilità e della sicurezza sociale; l’esigenza di mantenere la competitività (minor costo per unità di prodotto dei concorrenti), porta non solo sradicamento delle persone ma anche smantellamento del welfare.


«Le diseguaglianze economiche restano per molti il segno di una promessa chimerica di cittadinanza»,  scriveva Dahrendorf nel 1995 insistendo sul fatto che «società civile e cittadinanza sono incompatibili con l’esistenza di privilegi». Purtroppo anche nei paesi avanzati (del cosiddetto Primo mondo) le disuguaglianze in termini di reddito sono in continuo aumento: quelli delle fasce del 10-20 percentuali più benestanti stanno crescendo in maniera spropositata, mentre quelli delle persone appartenenti al 20 o anche al 40 per cento più bassi calano.

 

Si aggiunga un’ulteriore disuguaglianza quella che spiana la strada verso “le vette” a coloro che possiedono le competenze richieste. Essi trovano un job ben remunerato, mentre coloro che svolgono lavori poco qualificanti e ripetitivi – che in passato godevano di un salario ragionevole – sprofondano nelle sabbie mobili della precarietà lavorativa e del reddito insufficiente. Torna alla memoria il monito di Dahrendorf: «I valori di una società illuminata e civile esigono che al privilegio subentrino i diritti generalizzati per tutti gli esseri umani del mondo. E questo deve valere non solo a livello di politica interna di un paese dato, dove il privilegio è per definizione una negazione della cittadinanza degli altri, ma anche sul piano internazionale». Insomma urge interrogarci sul come agire per far “quadrare il cerchio” per riuscire a combinare benessere economico per tutti gli esseri umani della terra, coesione sociale e libertà politica per tutti i cittadini.

Pubblicato il 

30.06.22
Nessun articolo correlato