È un dato di fatto: la Svizzera è un paese di immigrazione. All'interno delle nostre frontiere, possiamo infatti contare una popolazione straniera pari al 20,7 per cento, una cifra superiore al resto del continente (anche se questo è dovuto alla politica elvetica molto più rigida in materia di naturalizzazione), e di molto superiore a quanto si registrava qualche decennio fa, negli anni '60, quando il tasso di stranieri era pari al 9 per cento. Il nostro bisogno di manodopera estera, in particolare nei settori dell'industria, della costruzione e della ristorazione, ha fatto crescere la curva. Una curva che non è certo destinata a decrescere visto che il bisogno di queste solide braccia cresce, così come cresce la natalità. Svizzera paese di immigrazione, dunque. Ma Svizzera è anche sinonimo di integrazione? Molti contestano questa idea, tra questi il partito socialista svizzero che proprio negli scorsi giorni ha presentato un documento di azione per colmare questo mare, chiamando in causa diversi attori, compresi gli stessi immigrati.

«Il progetto è nato dall'esigenza di avere un documento di base sulla politica di integrazione in risposta alle ancora evidenti lacune esistenti in Svizzera in questo ambito» – spiega Nenad Stojanovic, membro della direzione Pss che ha partecipato all'elaborazione di questo documento. «Le statistiche ci dicono, ad esempio, che la percentuale di stranieri con un basso livello di istruzione è molto alto rispetto agli svizzeri. E questo fenomeno riguarda soprattutto giovani tra i 20 e i 30 anni provenienti dai Balcani e dalla Turchia. Così come abbiamo rilevato che l'integrazione delle donne straniere è ancora ostacolata da vari motivi come il rimanere a casa senza possibilità di istruzione o di apprendimento della lingua locale» spiega Stojanovic.
Negli ultimi anni sono aumentati e inaspriti i dibattiti sui limiti che un paese deve mettersi quando parla di voler integrare "l'altro". Ad esempio sono ancora aperte questioni come: dobbiamo permettere che i bambini a scuola portino segnali religiosi? Dobbiamo autorizzare la costruzione di cimiteri per le varie comunità? E le ragazzine possono non seguire la lezione di nuoto a scuola per motivi legati alla loro appartenenza religiosa? «Con il nostro documento cerchiamo di dare una risposta a queste domande» afferma il rappresentante del Pss.
Il documento, dopo un'analisi attenta della situazione da vari punti di vista, giunge alla prima conclusione secondo cui il nostro Paese è innegabilmente un Paese di immigrazione. Riconosciuto questo fatto, il testo continua insistendo sulla necessità di avere una vera politica di integrazione. «È semplicemente scandaloso che la Svizzera, seconda solo al Lussemburgo per tasso di stranieri che ospita, spenda appena 14 milioni di franchi all'anno per le misure di integrazione. E lascia la libertà di fare, ma anche di non fare, ai cantoni e ai comuni creando così non pochi squilibri» commenta Stojanovic. Il Pss ha così formulato 13 "misure di offensiva" che sottolineano quanto l'integrazione sia un processo complesso che implica un intervento massiccio in primo logo da parte della Confederazione con un accresciuto impegno finanziario. Un secondo tassello di responsabilità è da attribuire, sempre secondo il documento, ai datori di lavoro «che devono poter dare delle garanzie concrete di rispetto delle pari opportunità oltre a impegnarsi a non discriminare nessuno nella ricerca di un posto di lavoro sulla base del colore della sua pelle, del nome che porta o della nazionalità» spiega Stojanovic «È nostra convinzione, infatti che se una persona sa di essere discriminata sulla base delle proprie "caratteristiche materiali" è chiaro che non può sentirsi a proprio agio nel luogo in cui vive e cerca lavoro; di conseguenza non si sentirà integrata e non potrà identificarsi con le istituzioni e con i valori di questo paese». Ma la Confederazione e i datori di lavoro non sono gli unici attori chiamati in causa. Il piano del Pss si aspetta infatti anche un impegno importante da parte degli immigrati stessi. «Noi intendiamo infatti imporre che ogni migrante, al suo arrivo in Svizzera, firmi una sorta di convenzione di integrazione, con il datore di lavoro o con lo stato, in cui venga, ad esempio, regolamentata la frequentazione obbligatoria di corsi di lingua (sovvenzionati almeno in parte dallo Stato), e di incontri informativi con le autorità. L'apprendimento della lingua del posto è la prima chiave per l'integrazione» spiega il nostro interlocutore. Inoltre, e questo è certamente il punto più delicato della faccenda, agli immigrati viene chiesto di conoscere, accettare e rispettare quelli che sono i diritti fondamentali definiti dalla costituzione svizzera. «È chiaro che questo è un punto molto delicato perché ci porta ad andare contro certe pratiche delle culture d'origine. Ad esempio, uno dei nostri valori fondamentali è il rispetto della donna e le pari opportunità. È un punto delicato sul quale però noi non tergiversiamo» commenta ancora Stojanovic.
Il prossimo passo sarà la discussione in merito al documento prevista il 2 dicembre a Muttenz. In seguito sono previsti interventi puntuali in parlamento per realizzare un vero e proprio piano di azione federale. «Ci aspettiamo che anche i due partiti di centro destra assumano le loro responabilità visto che da sempre dicono di volere una vera integrazione, contrariamente a come fa l'Udc che sfrutta il tema per opportunismo elettorale senza mai né proporre né  accettare delle misure concrete», conclude Stojanovic.

Pubblicato il 

10.11.06

Edizione cartacea

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