Denis de Rougemont, grande svizzero, europeista ante litteram e soprattutto eminente uomo di cultura, nella prefazione ad uno dei suoi ultimi libri “La Svizzera o la storia di un popolo felice” del l970, affermava che gli svizzeri, che secondo i sondaggi d’opinione di allora erano al primo posto fra i popoli che si considerano felici, erano tuttavia altrettanto inquieti. Fra le inquietudini evocate da de Rougemont vogliamo individuarne due ancora molto presenti nella nostra popolazione: l’inquietudine del patriota: nel mondo dei tecnocrati, dei grandi mercati, dei grandi insiemi politici in formazione, le nostre libertà, e la Svizzera stessa, in quanto Stato, hanno ancora un senso e potranno sussistere? L’inquietudine spirituale e morale: non è che tanta pace e prosperità sono state guadagnate a scapito della nostra anima? A scapito della nostra vera ragion d’essere? Oggi, nell’era della cosiddetta “globalizzazione” si delineano due mondi sempre più differenziati; quello dei tecnocrati, alti funzionari, rappresentanti di multinazionali e dei potenti media che agiscono su scala internazionale e quello della gente minuta che cerca nel territorio circostante, nell’angustia quotidiana, una risposta alla paura della dissoluzione, alla sensazione della perdita di identità problemi come quelli legati alla salvaguardia dell’ambiente e alla fame nel mondo, alle malattie, contribuiscono non poco a turbare le coscienze umane. L’idea di un vasto mercato europeo aggiunto a un mercato ancora più esteso a livello mondiale, dominati dalla speculazione e l’indebitamento, risponde a una logica di libera concorrenza. La misura dei problemi che si presentano è planetaria. Tuttavia una gran parte della realtà è tutt’altra cosa. E fatta di separazioni, di particolarismi, di specializzazioni, di comportamenti sociali specifici. Di fronte a questa declinazione del particolare al generale, l’individuo resta probabilmente più impressionato dalla dimensione locale che costituisce uno dei suoi sistemi di assimilazione alla società di partecipazione razionale al funzionamento della collettività. Ora, in un Cantone o in una regione marcata dal confine come il Canton Ticino, ogni tentativo di analisi in termini di razionalità può lasciare perplessi. In una regione di frontiera lo scenario sembra sempre dominato dagli altri, sfuggire alle forze locali, al raziocinio dell’individuo. Cosa c’è di razionale, si potrebbe obiettare, in un contesto di rapporti economici ed operativi che sembrerebbero invece dominati, all’opposto, dall’“arte di arrangiarsi”, di muoversi e di operare, di guadagnare e di perdere, in un quadro che sembra mutare ogni giorno, un quadro reale ma nello stesso tempo inaffidabile. Possiamo ancora affrontare l’obiettivo dell’Europa “senza frontiere” con la sola filosofia dell’“arrangiarsi”? Così s’interrogava, qualche anno fa, in uno studio comparativo intitolato emblematicamente “Chiasso 2001. Situazione, prospettive, proposte” un gruppo di ricercatori. Tra le raccomandazioni e le proposte del gruppo di lavoro s’ipotizzava l’accentuato inserimento del Canton Ticino in una politica di cooperazione transfrontaliera. Il ruolo di barriera della frontiera, si affermava, si è già in parte modificato negli ultimi anni. L’evoluzione in atto a livello europeo, gli accordi bilaterali, l’adesione all’Onu, la realizzazione di una sempre maggior liberalizzazione negli scambi di merce e nella circolazione di persone accentueranno sicuramente nei prossimi anni questo fenomeno. L’esortazione è a estendere la collaborazione transfrontaliera ai campi culturale e sociale visto il fiorire di iniziative in questi settori, come ad esempio quello dell’educazione e della creazione delle Università al di qua e al di la del confine. Il modello evocato dell’obiettivo dell’Europa delle regioni, per noi la Regio Insubrica della “frontiera aperta” dove predomina la funzione di contatto e non quella di separazione non passa solo per i sistemi politico-istituzionali o i sottosistemi socioeconomici, ma anche e forse prima di tutto attraverso la cultura. Non si dice appunto che la cultura non ha frontiere? O ancora che la Svizzera senza la sua cultura plurilinguistica non esisterebbe? Tutto non è culturale beninteso, ma è interessante chinarsi su questo fenomeno. La cultura può diventare allora luogo d’incontro, di rivelazione e contribuisce talvolta a superare le differenze e gli apriori; essa interroga le pratiche e le relazioni sociali. Nella nostra società ipertecnologica è fondamentale che l’universo sensibile, l’universo dell’immaginazione e della creatività faccia da contrappunto al mondo del pensiero puramente razionale. La nostra società, in Svizzera come altrove, ha più che mai bisogno d’immaginazione, di creatività e d’innovazione. Applicazione, ordine, prosperità, neutralità, puntualità e senso del dovere, tutto ciò non sarà sufficiente per traghettare la Svizzera con dignità attraverso il ventunesimo secolo; la sopravvivenza e la credibilità del nostro paese transitano anche da altri valori, magari intellettuali come la cultura. Certi indicatori ci dimostrano che la fruizione della cultura nel nostro paese è in crescita e ha mutato statuto. La gente scopre modi di vita e forme di cultura diverse; e nel contempo i valori culturali certi e le tradizioni vivono un vero e proprio rinascimento. La cultura assume poco a poco agli occhi della gente una nuova importanza e un nuovo significato in consonanza ai ritmi e ai mutamenti della società, risveglia il desiderio di ricercare nuovi valori ma anche di riscoprire i valori passati. In questa prospettiva la dimensione culturale diventa essenziale, essa interviene nelle nostre preoccupazioni e nelle nostre utopie. Come recita la definizione del Consiglio d’Europa: «La cultura è tutto ciò che permette all’individuo di sentirsi a suo agio nei confronti del mondo, della società come anche nei confronti delle tradizioni del proprio paese, tutto ciò che permette all’individuo di capire meglio la sua situazione per poterla eventualmente mutare». *) Direttore Centro culturale svizzero di Milano

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27.09.02

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