L'Ufficio federale delle assicurazioni sociali (Ufas) afferma che i dati forniti dall'Ufficio federale di statistica sulla speranza di vita all'età della pensione non sono pertinenti, poiché si riferiscono all'insieme della popolazione mentre nel campo della previdenza professionale andrebbero considerate solo le persone che lavorano fino al raggiungimento dell'età di pensionamento e che tendenzialmente vivrebbero più a lungo. Ma fino a che punto è possibile fare previsioni più ottimistiche per quanto riguarda la longevità? Abbiamo girato la domanda a un esperto, al direttore della Pittet Associati di Berna (società specializzata nella consulenza nel campo della previdenza professionale) Olivier Kern, che spiega: «È il punto di vista dell'Ufas e come tale va accettato, ma non per forza condiviso. Ci sono vari criteri per stimare la speranza di vita e dunque si possono fare previsioni discordanti. Essa potrebbe essere per esempio calcolata tenendo conto del fenomeno dell'ineguaglianza sociale di fronte alla morte, visto che chi ha una formazione accademica e lavora in ufficio vive più a lungo rispetto a chi non ha studiato e lavora in condizioni difficili: ci sono statistiche che stimano, a 65 anni, uno scarto di tre anni e mezzo per gli uomini e di 1,6 per le donne».

 

Vuol dire che le previsioni le compagnie di assicurazione sono eccessivamente ottimistiche per quanto riguarda la speranza di vita degli assicurati?

Certo. Siccome non vogliono perdere soldi e assicurarsi di averne abbastanza per pagare le rendite elaborano previsioni (per loro) pessimistiche facendo vivere tutti più a lungo. Applicano insomma la politica della prudenza. Ed è giusto essere prudenti, ma non si deve nemmeno eccedere.

In termini assoluti, se si confrontano i dati delle statistiche dell'Ufs sulla speranza di vita e quelle usate dalle casse pensioni sono enormi. Dove sta la verità?

Ci sono diverse verità a dipendenza del segmento di popolazione che si osserva. Ideale sarebbe avere un'unica statistica applicabile a tutte le casse pensioni, ma purtroppo in Svizzera non esiste. Andrebbero in particolare riuniti tutti i dati delle casse pensioni per stimare la speranza di vita solo delle persone attive, la quale differisce da quella della popolazione complessiva che comprende anche i malati, gli invalidi e i disoccupati.

È possibile tenere conto dell'aumento della speranza di vita senza toccare il tasso di conversione e dunque le pensioni?

Non solo si può, ma si deve: lo prescrive la legge. La Lpp impone agli istituti di previdenza di regolamentare il loro sistema contributivo e di finanziamento in modo da poter garantire le prestazioni quando sono esigibili.  In altre parole, ogni istituto deve fare in modo di incassare abbastanza per finanziare le pensioni stabilite sulla base del tasso di conversione indicato dalla legge. E se si ritiene che i propri assicurati vivano più a lungo, si devono costituire delle riserve. Riserve che possono essere finanziate attraverso il rendimento dei capitali o con i contributi di datori di lavoro e lavoratori.

Allo stato attuale una nuova riduzione del tasso di conversione non si giustifica per nessun motivo?

Se effettivamente si ritiene che i contributi paritari versati da lavoratori e datori di lavoro non rendano più a sufficienza per garantire le prestazioni, il taglio delle rendite è una possibilità. Ma ai cittadini si deve spiegare onestamente che se sarà approvata una nuova riduzione di 0,4 punti del tasso di conversione il prossimo 7 marzo, sarà inevitabile ripetere l'operazione ogni cinque anni. Coloro che oggi reputano impossibile finanziare un tasso del 6,8, nel 2015 potranno argomentare che non sarà più possibile finanziare il 6,4 perché la speranza di vita continuerà ad aumentare. Insomma, se questo è il criterio, le prestazioni continueranno a diminuire anche in futuro. Ma è una strada sbagliata e pericolosa perché si chiamano alla cassa solo i lavoratori e si risparmiano i datori di lavoro, quando la Lpp stabilisce il principio del finanziamento paritario.

Vuol dire che sarebbe più corretto aumentare i contributi per garantire il finanziamento delle pensioni?

Certo. Si potrebbe pensare a contributi supplementari tra lo 0,5 e l'1 per cento da suddividere tra lavoratore e datore di lavoro. Ed è sorprendente che questa soluzione non venga nemmeno presa in considerazione nel dibattito politico e dalle grandi assicurazioni private. Assicurazioni che del resto applicano lo stesso principio con tutti gli altri prodotti: per esempio, nel campo dell'assicurazione auto, di fronte ad un aumento degli incidenti, non decidono una riduzione della copertura ma aumentano i premi. E lo stesso si potrebbe fare con la previdenza professionale.

Una bocciatura della revisione della Lpp il prossimo 7 marzo spalancherebbe le porte ad una soluzione di questo tipo?

La vera domanda a cui i cittadini dovranno rispondere è la seguente: "siete disposti a pagare un po' di più per avere le stesse prestazioni oppure preferite continuare a pagare lo stesso e ricevere rendite inferiori?" La scelta sarà determinante anche per il futuro: se il 7 marzo dovesse prevalere la seconda ipotesi (dunque il sì alla revisione della Lpp), ogni cinque anni i pensionati si vedranno ridurre la pensione. In questo senso, i più penalizzati sarebbero i giovani che andranno in pensione tra venti o trent'anni, quando il tasso di conversione non sarebbe sicuramente più pari al 6,4 per cento ma molto inferiore. A dimostrazione che la solidarietà con le giovani generazioni evocata dai fautori della riduzione del tasso di conversione è un inganno.

 

Pubblicato il 

29.01.10

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