Da qualche anno mirare all’“eccellenza” sembra costituire un requisito necessario con cui presentare nuove istituzioni e progetti di ambito culturale. Anche in campi in cui in realtà, come ad esempio nelle arti visive, oggi nessuno sa come si possa definire la qualità, nel discorso istituzionale è in atto una continua profusione di sogni di “eccellenza”. Ogni progetto viene valutato nel suo risultare più o meno “competitivo”, ogni sede universitaria deve tendere a partorire un “polo di eccellenza”, per non parlare di mostre e musei… ovunque si sbandierano immagini agonistiche. L’eccellenza, sullo sfondo della concorrenza, come giustificativo di mandati e investimenti… Nessuna meraviglia che poi le discussioni sull’eccellenza si riducano immancabilmente, sotto sotto, a una faccenda di incassi e pubblicità… Di recente mi è capitato di udire un politico (leghista), assolutamente rappresentativo (ahinoi!) di quel fazzoletto di terra che è il Canton Ticino, affermare che “l’eccellenza è il nostro destino”. Nientedimeno! Nella sua cosmica, ancorché involontaria, comicità, questa affermazione lascia capire che l’“eccellenza” è sognata come l’espressione, in campo culturale, di una forza generativa di altra natura, forse astrale o territoriale… L’eccellenza: un nostro destino? di natura etnica? spirituale? economica? Non mi pare proprio esservi una particolare tradizione storica cui fare riferimento per fantasticare questo destino per Lugano, quanto tutt’al più una strumentale confusione di piani e di ambiti, forse nient’altro che una proiezione onirica della piazza finanziaria… Inevitabile, dinanzi a questi meccanismi proiettivi, una semplice domanda: nella retorica dell’eccellenza, al di là delle apparenze, non si esprime forse un senso d’inferiorità? Il mito dell’eccellenza non promette forse, in particolare oggi, una compensazione? E non è pertanto spia di un senso profondo di carenza? A ben vedere vi è anche un filo che lega, sotto il segno della paura, ossia dell’inferiorità, retorica dell’eccellenza e pregiudizio culturale, venato di snobismo classista e di xenofobia… Anche per questo, decostruire il mito dell’eccellenza mi sembra un compito politico. L’eccellenza quale scopo non eccede affatto l’omogeneo e il conforme, ma piuttosto lo consacra come totalità, come destino immodificabile in cui ogni pratica e ogni opera deve rientrare e ricevere un grado. La ricerca di questa “eccellenza” è allora una forma del peana della fine della storia, implica paradossalmente la chiusura e la rimozione di ogni prospettiva capace di un reale cambiamento e di una rottura di paradigma. Occorre pertanto cercare di non fare nessuna confusione fra l’eccellenza e l’eccezione. Decostruire l’eccellenza deve portare a ripensare l’eccezione, a rivendicare il suo carattere di salto critico fuori dall’abituale e di anticipazione di un’altra realtà. Laddove l’eccellenza conferma la regola, l’eccezione può rivelare il fondamento del tutto relativo del valore della regola, il suo carattere storicamente divenuto, la sua vicinanza con la forza e con l’abuso. Mentre le politiche dell’eccellenza sono rassicurative e conformiste, l’eccezione colpisce per il suo carattere di evento inaspettato, per la sua rivelazione di un carattere alternativo, ossia di un gesto e di un volto che non è conforme al destino e che è capace di dare una legge a sé stesso. I populismi contemporanei, speculando sull’evento di massa, corteggiano in termini proiettivi il desiderio di un carattere. Ma l’eccezione, come nell’insuperata omonima pièce di Bertolt Brecht, deve far apparire la rozzezza dell’esistenza strumentale e la meschinità dei suoi modelli esistenziali, attestare in prima persona la possibilità di un’altra soggettività, non esaurirsi in evento proiettivo. Una cultura politica critica deve opporre l’eccezione attiva del carattere solidale alle presunte forze del destino: senza questa risoggettivazione del carattere oggi più che mai non può più darsi alcuna differenza politica. Resta solo l’amministrazione totale, con la sua impersonale maschera d’eccellenza.
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